Zamora, un timoroso Marcoré avatiano L'esordio alla regia non fa gol

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Nostalgia degli...

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Nostalgia degli anni ’60. La provincia lombarda, la Milano in lontananza che non era ancora quella da bere ma già cavalcava il boom economico e che attirava (e un po’ impauriva) chi voleva tentare di entrare nel grande gioco. E poi c’era il calcio: Inter, Milan e qui non serve aggiungere altro, è la storia di questo sport. Walter Vismara (un sorprendente Alberto Paradossi, sfaccettato e cangiante) è un ragioniere che vive la sua vita serena, tra lavoro, casa e famiglia. Non ha grilli per la testa, nemmeno forse ambizioni alte. Ma un giorno il suo principale gli comunica che si chiude e che, grazie a una sua raccomandazione, il ragazzo potrà trovare un nuovo impiego a Milano. Non la conosce e un po’ la teme, ma soprattutto non conosce il calcio (e tantomeno Zamora) e se questo al momento non lo può preoccupare, in realtà sarà un vero problema. Il nuovo datore di lavoro (Giovanni Storti) è un fanatico del  pallone e ogni anno organizza, tra i suoi impiegati, la partita tra scapoli e ammogliati. Ma agli scapoli ora manca un portiere. E Vismara ha la sfortuna, durante il primo interrogatorio, di definirsi portiere, senza nemmeno sapere cosa vuol dire. Sarà proprio un ex portiere, in disgrazia da tempo per uno scandalo, a dargli fondamentali lezioni per riparare al danno e diventare una specie di Zamora, come i suoi colleghi lo chiamano per prenderlo in giro, ricordando uno dei più grandi numero 1 della storia del calcio. E parliamo di quasi un secolo fa. Dal libro di Roberto Perrone, giornalista del Corriere e scrittore scomparso da poco tempo, "Zamora", l’esordio alla regia di Neri Marcoré (che si ritaglia anche il ruolo del portiere-allenatore) sfrutta gli stereotipi di quell’epoca, riscattandoli con uno sguardo dolcemente malinconico, in linea con le caratterizzazioni alle quali Marcoré, anche con la sua indole ironica, ci ha abituato da tempo. Sorprende che il film sia quasi totalmente ambientato di notte, con una fotografia da toni cupi e dai colori caldi anche negli interni, che danno molta intimità, ma rendono forse troppo oscuro un ambiente al contrario esuberante. Non sempre tutto funziona. E se da un lato il tratteggio dei personaggi è sicuramente affettuoso e quelli femminili godono di una intraprendenza che i maschi si sognano, il ricorso didascalico alle canzoni di allora (ad esempio, da “Ma che freddo fa”, con la quale si apre il film, a “Arrivederci”) e un tono eccessivamente lieve dal sentimentalismo sdrucciolevole, lasciano un segno decisamente timoroso, nonostante una sincerità di fondo, che ricorda un po’ le atmosfere avatiane. Restano alcuni momenti divertenti, come il duetto finale tra Giovanni e Giacomo (Poretti) negli spogliatoi, dopo che Vismara aveva stupito tutta l’azienda, obbligatoriamente accorsa in tribuna, diventando l’eroe della partitella. Come un vero Zamora del calcio dilettantistico. Voto: 6.

 

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Il Gazzettino