Western e musical: la settimana è grigia La peggiore persona non è il peggiore film

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Siamo nel Montana del primo Novecento, dove il rozzo allevatore Phil Burbank (il sempre bravo Benedict Cumberbatch) semina il...

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Siamo nel Montana del primo Novecento, dove il rozzo allevatore Phil Burbank (il sempre bravo Benedict Cumberbatch) semina il terrore nella vallata. Quando il fratello, dal carattere decisamente più docile, sposa un’alcolizzata (Kirsten Dust), che gestisce un saloon e ha un figlio gay, la situazione precipita. Madre e figlio si spostano nel ranch dei Burbank, ma qui vengono sottoposti continuamente alle vessazioni del rude mandriano. Soprattutto il ragazzo è fatto oggetto di piccole, grandi crudeltà quotidiane da parte di Phil, ma una scoperta casuale cambierà radicalmente il loro rapporto personale, mettendo il giovane in una posizione avvantaggiata.  Escludendo la serie “Top of the lake”, dodici anni dopo “Bright star” la neozelandese Jane Campion torna alla regia con un film contemplativo sulla natura selvaggia del paesaggio e degli uomini. Lo fa abbondando in bucoliche atmosfere, paesaggi sconfinati, segreti inquietanti (come l’ultimo, che invita lo spettatore a risolverselo), ritmo sonnolento e mood dolente: la Campion cerca il rumore profondo e nascosto dei corpi, ma sono i silenzi ad essere estenuanti. Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage, “Il potere del cane”, targato Netflix, con parentesi iniziale nelle sale, premiato un po’ generosamente a Venezia per la regia, è fin troppo trattenuto, senza una vera spinta coraggiosa. Certo il western si affida al melò per fare presa sullo spettatore, sedotto e un po’ sedato dalla parsimoniosa lentezza degli eventi. La codifica dei personaggi si riverbera nell’inganno che prima di tutto si fa a se stessi, come se al centro della scena la virilità chiedesse l’obbligo di potersi esprimere secondo i canoni del tempo e del luogo. Jane Campion affronta la materia per sottrazioni e indizi, fa deflagrare le conflittualità, fino ad attenuarle almeno apparentemente, sapendo che il dolore lascia i segni e il desiderio di riparare a troppi torti è molto umano. È un mondo che non sa evitare la repressione, camuffando il proprio dominio, dove la carnalità sembra poter esplodere, fermandosi sempre su una linea di demarcazione che non consente mai di andare esplicitamente oltre. I campi lunghi si alternano ai primi piani: la Campion scava tutta l’insofferenza per un mondo che non sembra appartenere a nessuno, dove c’è più libertà in chi cerca di essere se stesso e non chi gioca a nascondino con la propria vita. Può affascinare “Il potere del cane”, ma ogni inquadratura sembra portarsi dietro un po’ di manierismo, una perfezione stilistica che ammorba gli impulsi e le tematiche. Mettendo per la prima volta gli uomini al centro della vicenda, la Campion sembra perdere quell’incisività di altre sue opere, mantenendo quell’eleganza e raffinatezza formale, che qui forse rappresenta un limite. Voto: 5,5.

NO, NO, ANNETTE - Leos Carax è uno che ogni volta sente la necessità di dover stupire a tutti i costi. Così a ben 9 anni di distanza da “Holy motors”, una specie di sussidiario del cinema complesso e a tratti anche folgorante, ecco adesso “Annette”, film che ha aperto l’ultimo Cannes. Che cos’è “Annette”? Un musical, ma senza balli; un melò, ma raggelato dentro un’architettura invadente, scoppiettante, irrefrenabile. Altro? Magari anche un noir, una commedia e tanto ancora, perché la regola è debordare, usare il proprio talento (che non manca), fino a farlo ingolfare. Ann è una cantante lirica, Henry intrattiene il pubblico con i suoi spettacoli che strappano risate continue. Solare lei, lunare lui. Opposti. Si incontrano, si amano, nasce Annette, una bambina-Pinocchia, lei muore. Poi salta fuori un terzo incomodo, che forse c’entra qualcosa con la nascita di Annette, che è a questo punto anche un simbolo. Carax ragiona sempre sulla messa in scena, ne fa un caos di situazioni e immagini. E cerca, trova e forse disperde il suo cinema. Belle le canzoni (la musica è degli Sparks), bravi Marion Cotillard e Adam Driver. Ci sono il mondo dello spettacolo, la paura di andare in scena, la sensazione di onnipotenza sul palco e fuori. Ma tutto è sempre troppo. Voto: 5,5.

È L’UOMO PER ME - La trentenne Julie è una ragazza assai indecisa. Soprattutto in campo amoroso. Da adolescente non sa quale indirizzo scolastico prendere, da grande è probabilmente frettolosa nella scelta dei compagni.  Alex, un fumettista incontrato a una festa, sembra quello giusto, ma non è così. Con “La persona peggiore del mondo” Trier elabora una mappa dello sbandamento emotivo e funzionale dei millennial: stile spesso convulso e volutamente confuso, frantumazione temporale (con un “fermo” che spiega la natura interiore della protagonista), eccessi nella forma e nella sostanza. 12 capitoli, più un prologo e un epilogo: anche meno andava bene. Renate Reinsve, premiata a Cannes, lascia il segno. Voto: 6.

 

 

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Il Gazzettino