West side story, 60 anni dopo: viva Spielberg un regista che non si fatica ad amare

West side story, 60 anni dopo: viva Spielberg un regista che non si fatica ad amare
Forse non è nemmeno il caso di chiedersi perché Steven Spielberg abbia sentito il bisogno di rimettere mano a un...

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Forse non è nemmeno il caso di chiedersi perché Steven Spielberg abbia sentito il bisogno di rimettere mano a un grande classico come “West side story”, remake che è stato un flop in sala negli Usa e teme di esserlo anche in Italia, dove peraltro il musical non ha mai avuto un suo “tempo”. Se Spielberg si è spinto a confrontarsi, sessant’anni dopo la sua uscita, con un’opera simile, di cui si ricorda tutto o quasi, dalla storia alle celebri musiche di Leonard Bernstein, ha i suoi motivi, non foss’altro proprio perché è un film che ha sempre amato e che fa parte della sua infanzia e dei ricordi familiari (non a caso il regista lo dedica al padre). 

Del film di Robert Wise e Jerome Robbins (1961), che si rifaceva allo spettacolo di Broadway del 1957, rimane intatto praticamente quasi tutto. La storia di Tony e di Maria, eco evidente della scespiriana Romeo e Giulietta, che pone a confronto figli di immigrati polacchi (Jets) e quelli portoricani (Sharks), si riverbera nell’Upper West side, che qui, rispetto all’originale, è già un cumulo di macerie dove poi sorgerà il Lincoln Center, come dire che il sogno americano, evocato dal celeberrimo, bellissimo brano “America”, è già ridotto a pezzi e la gentrificazione in atto. Spielberg rompe lo sguardo frontale dell’impianto teatrale originale, occupando in modo nevralgico lo spazio coreografico. Ne esce un percorso sinuoso nel cuore del movimento dei corpi, portando le contrapposizioni dei due nuclei etnici a saldarsi in un abbraccio tra il rissoso e il poetico, simbolicamente riassunto dalla storia d’amore tra i due giovani. Accentuandone a tratti l’impatto politico (e linguistico: purtroppo perso nel doppiaggio italiano), Spielberg rafforza l’idea che, al di là dell’ecumenico finale, a pagare siano sempre comunque i più poveri e gli immigrati, e che la rabbia fornisca solo un alibi alla violenza. Momenti indimenticabili: il primo incontro tra Tony e Maria, il primo “Tonight” scandito attraverso grate che ostacolano il contatto tra gli innamorati, la preparazione alla rissa dove il montaggio del fido Michael Kahn e la fotografia di Janusz Kamiński si esaltano, lo sfavillante “America” che irrompe nelle strade; e ovviamente il piano sequenza iniziale tra le macerie e gli imperdibili, chiaroscurati titoli di coda tra le architetture e i mattoni di New York. Semmai sono proprio i due protagonisti (il bel bamboccio Ansel Elgort e la candida Rachel Zegler) a essere poco espressivi e convincenti, confermando che il fascino appartiene quasi sempre ai cattivi. Qua e là ritocchi all’originale (scompare Doc, al suo posto Valentina; è più sensibile l’attrazione di Chino per Bernardo) per un film che magnifica ancora il talento di un regista che non si fatica mai ad amare. Voto: 8.

 

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Il Gazzettino