Venezia 77, giorno 5 Assandira traballa, lesbiche e bambini anche

Venezia 77, giorno 5 Assandira traballa, lesbiche e bambini anche
Ancora donne protagoniste, stavolta in coppia, sperdute nei boschi dello Stato di New York: sono Abigail e Tallie, entrambe...

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Ancora donne protagoniste, stavolta in coppia, sperdute nei boschi dello Stato di New York: sono Abigail e Tallie, entrambe sposate, che scoprono tra un incontro e l’altro di provare una segreta attrazione reciproca. Siamo a metà Ottocento, momento cruciale per la rivendicazione sociale del ruolo della donna nel mondo (si veda anche “Miss Marx”) ed è evidente che tale passione, pur tenuta a freno e lontana dagli occhi familiari, pian piano inizia a insospettire i consorti. Tallie, che ha un marito decisamente più autoritario e conservatore, è costretta a seguirlo verso altre terre, finché una lettera che arriva ad Abigail, permette alle due donne di incontrarsi di nuovo. “The world to come” (Il mondo che verrà) è l’opera seconda della regista Mona Fastvold, di origini norvegesi, che ha già sceneggiato “L’infanzia di un capo” e “Vox lux” di Brady Corbet. Girato in Romania, in pellicola, il film affronta il tema della scoperta lesbica in un ambiente bucolico, in un quadro di crescente disagio, ovattato da una luce plasmante, grazie a due protagoniste (ancora Vanessa Kirby – dopo “Pieces of woman” e Katherine Waterston), che aderiscono alla scoperta con sensibilità pregevole. Ma se il film regala almeno una scena indimenticabile (Abigail che si sdraia nel letto accanto alla diafana, ammalata Tallie, scatenando i ricordi di amplessi voraci nel periodo gioioso: una scelta assai felice, posta nel sottofinale), le due donne sembrano perfino troppo colte e raffinate: scrivono poesie, Tallie ha una sensualità spiccata anche nel vestire, allevano mucche e maiali ma a tavola stanno come i borghesi. Tutto questo toglie la sensazione di realismo che la Fastvold vorrebbe ricreare. In un apparato tutto sommato convenzionale (si pensi a un’opera come l’altrettanto recente “First cow”, per capire la differenza), il film si fa comunque discretamente apprezzare. Voto: 6.
Va decisamente peggio per il film iraniano “Sun children” di Majid Majidi, film sullo sfruttamento continuo al lavoro di tanti ragazzi e bambini. Più adatto a un Giffoni, è una caotica, pulsante, ma inerte denuncia sociale, che spinge la narrazione in una specie di caccia al tesoro nei tunnel di una scuola. Il giovane protagonista sgrana gli occhi in ogni circostanza, ma il film gli risparmia l’inevitabile morte nei bunker allagati, dal quale esce come un supereroe. Così il finale vive di consumate perlustrazioni nelle aule vuote e il suono di una campanella scolastica, che sarebbe stato meglio evitare. Voto: 4.

Non vorremmo per ora dilungarci troppo su “Assandira” di Salvatore Mereu, che proprio da Venezia iniziò il suo percorso. Siamo nella Sardegna rurale, dove un vecchio contadino (Gavino Ledda) riceve il ritorno del figlio, sposato a una prosperosa tedesca, con l’intenzione di aprire un agriturismo, appunto Assandira. Nel film, fuori concorso, lo scontro generazionale è anche quello storico (arrivano i turisti, la coppia è ossessionata dal volere un figlio – metafora significativa), ma se la prima mezz’ora tra il fuoco e la pioggia è potente, il film degrada, compresa una parentesi berlinese, tra troppe tematiche e un’inchiesta sconcertante sulla disgrazia che apre il film. Mereu darebbe quasi la sensazione di un intento parodistico degli eventi, ma purtroppo non è così. Ne risulta un’opera traballante, indecisa su cosa concentrare la propria attenzione, caricata da personaggi quasi grotteschi (gli ordini che la tedesca impartisce agli ospiti-turisti possono scatenare ilarità), dove il commissario ha la bonarietà di un Don Matteo. Voto: 5.

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Il Gazzettino