Venezia 75, giorno 1. Tra astronavi e celle una vita da eroi e da povericristi

Venezia 75, giorno 1. Tra astronavi e celle una vita da eroi e da povericristi
Chiusi nell’abitacolo asfissiante di un’astronave sapendo che la propria vita è in costante pericolo,...

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Chiusi nell’abitacolo asfissiante di un’astronave sapendo che la propria vita è in costante pericolo, rinchiusi in una cella sperando che questo non sia vero: Venezia apre con due storie estreme, di coraggio e di paura, di eroismo e vigliaccheria, di azione straordinarie dell’Umanità e di crudeltà disumane su un giovane indifeso. Due film che, a ben guardare, si confrontano con il bisogno di una verità, contro i negazionisti della conquista lunare (sempre presenti) e contro le coperture a ogni latitudine sui comportamenti deviati delle forze dell’ordine.
Damien Chazelle torna a riaprire la Mostra due anni dopo “La la land”: stavolta si affida a una narrazione classica e con “First man” racconta la conquista della Luna da parte degli americanI, attraverso il percorso tormentato e soprattutto privato di Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sul suolo lunare, che qui ha la faccia, meno ruffiana del solito, di Ryan Gosling. È pur sempre la sua storia prediletta che segue il raggiungimento ossessivo di un risultato, iniziato dal sincopato “Whiplash” e che anche oggi, in questo straordinario tragitto compiuto da Cape Canaveral al Mare della Tranquillità, si porta dentro tutto quello che serve pur se solo accennato, dall’antagonismo con i russi, in una gara dove la conquista dello spazio era una lotta politica di supremazia mondiale, fino alle proteste di chi vedeva tanto denaro continuamente sperperato a danno delle popolazioni più povere della nazione. Chazelle lavora di sottrazione, si spinge sul terreno familiare per svelare la percezione di un uomo, privilegiandolo all’eroe, che ha più paura a confrontarsi con i figli che a volare verso la Luna. Si fa apprezzare per il tentativo di essere antiretorico, ma specie nella parte finale del “viaggio” vira improvvisamente nel suo contrario, con una solennità stonata e un’insistenza emotiva, come il lancio del braccialetto della figlia morta tempo prima. Però fa sentire come poche altre volte il rumore fisico dello spazio, dentro il furore centrifugo delle astronavi (bellissimo l’incipit) e chiude con una scena quasi commovente con Neil (chiuso al ritorno in quarantena) e la moglie, già lanciati in contrasti affettivi, divisi da un vetro protettivo, sul quale appoggiano le mani con titubanza, presagio della loro futura separazione. Provvidenzialmente lontano da Tarkovskij e da Kubrick, più vicino ad “Apollo 13”, è un film che riesce ad appassionare, nonostante la vicenda nota e questo è già abbastanza. Voto: 6,5.

Come l’anno scorso (era “Nico, 1988”), un film italiano apre la sezione “Orizzonti”, con un’opera di impegno civile, che fa riferimento a uno dei fatti di cronaca nera più controversi degli ultimi anni: la morte, durante la detenzione cautelare, di Stefano Cucchi, ancora oggi oggetto di procedimenti penali che hanno più volte ribaltato una verità che a tutti sembra essere la più probabile. Il regista Alessio Cremonini non costruisce un “film a tesi”, ma si limita, anche esteticamente, a una elencazione minuziosa dei fatti, costruendo un percorso cronachistico che ha il respiro televisivo, che accende la rabbia e lo sgomento, ma che cinematograficamente è piuttosto piatto, ravvivato soltanto nell’ultima parte, specialmente dai dialoghi con un altro detenuto, probabilmente immaginario. Ne esce un cammino si direbbe cristologico (c’è un innato senso al martirio del ragazzo) che tocca sicuramente il cuore, ma non aggiunge niente a ciò che già si sa e che non si risolve in una forte chiave estetica, come per esempio riuscì a fare Steve McQueen con il suo “Hunger”, dove il corpo diventava l’elemento dominante. Certo Alessandro Borghi svolge un lavoro mirabile, anche sulla voce (non a caso quella vera si sente in coda al film) e aiuta lo spettatore nella dolorosa partecipazione, tuttavia “Sulla mia pelle” denuncia i propri limiti nell’impostazione di una regia che osa poco. Voto. 6
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Il Gazzettino