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Non si può rimproverare a Damien Chazelle di non possedere il senso della misura, di non raffreddare l’iperbole che accompagna il suo cinema, presente anche in “First man”, che pure sembrava una tappa più riflessiva ed empatica, ora sbugiardata nel più frastornante dei modi con “Babylon”, quinta regia di questo (ex) ragazzotto del Rhode Island. Sarebbe un esercizio vano, perché di questa materia è da sempre fatto il suo cinema e non è un caso che ogni suo film diventi in qualche modo una palestra per divisioni critiche e contrapposizioni spettatoriali.
Però oggi questa incontrollata e bulimica kermesse del cinema che parla di cinema, come se il tema non fosse già che bello stritolato, questa faraonica impresa di raccontare ancora una volta la cannibale Hollywood che divora se stessa, finisce nel tritacarne di una rappresentazione dove ogni immagine muore nello stesso istante in cui si manifesta.
Nelle sue debordanti tre ore di durata, “Babylon”, versione isterica di “La La Land”, racconta cento storie e altrettanti personaggi, spesso con rimandi codificabili a protagonisti reali dell’era, ma è come se dimenticasse sempre di corrispondere quell’amore per il cinema, anche nei suoi aspetti peggiori, che Chazelle indubbiamente possiede, travolto egli stesso dalle vibrazioni di una messa in scena paradossalmente futile nel suo chiasso di feste, sesso e droga e della cenere che ne rimane. Non possedendo il sarcasmo caustico dei Coen (“Ave, Cesare!”) e nemmeno la banalità un po’ insulsa di Hazanavicius (“The artist”), figurarsi il rigore puntiglioso di David Fincher (“Mank”), tanto per restare agli ultimi, più famosi tentativi sullo schermo di raccontare quell’epoca, né l’acuta scandalosità remota di Kenneth Anger di “Hollywood Babilonia”, Chazelle descrive Hollywood nella sua esteriorità più kitsch, procedendo noiosamente per accumulo fuori controllo (un po’ come accade al recente “Bardo” di Iñárritu), ebbro di piani sequenza, carrelli, trombe ed elefanti, bruciando ogni metafora già dalla prima scena, con la colata di letame del pachiderma, arrivando fino agli anni ’50, quando di tutta quella montagna fintamente dorata, restano le lacrime del “sopravvissuto” Manny, che finisce con l’essere mero spettatore in sala davanti a “Cantando sotto la pioggia”.
Voto: 4.
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Il Gazzettino