Nella gabbia di "Stateless": il mondo che ha perso umanità

STATELESS Yvonne Strahovki nella serie prodotta da Cate Blanchett
Quanta disperazione negli occhi di quei migranti che sopravvivono a guerre, stupri, violenze, scafisti e oceano, e poi finiscono rinchiusi in un centro di detenzione australiano...

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Quanta disperazione negli occhi di quei migranti che sopravvivono a guerre, stupri, violenze, scafisti e oceano, e poi finiscono rinchiusi in un centro di detenzione australiano sperduto nel deserto. Un mondo sospeso, senza legge e senza alcun diritto, che consuma per anni le vite di uomini, donne e bambini alle prese con l’amara verità del sogno interrotto, quello della terra promessa. Fuggiti da un passato-gabbia, si ritrovano in un’altra gabbia, quella della burocrazia australiana, dell’immigrazione di stato, di dirigenti senz’anima, di secondini dal manganello facile. Un carcere, in fondo, dove si muovono persone di culture diverse in un delicato ed estremamente precario (dis)equilibrio.

LA STAR

C’è voluta la determinazione dell’attrice australiana Cate Blanchett, sensibile al tema anche perchè ambasciatrice Onu per i rifugiati, per far nascere un lavoro non facile come “Stateless” (disponibile su Netflix), la miniserie in 6 puntate prodotta dalla star, che si ritaglia solo un piccolo ruolo, e ispirata alla storia vera di una cittadina australiana di origini tedesche, Cornelia Rau, incarcerata illegalmente per dieci mesi, fra il 2004 e il 2005, mentre la famiglia la cercava disperatamente. Un caso che fece clamore - anche perchè Cornelia soffriva di disturbi mentali - che uscì sui giornali portando poi ad un’inchiesta governativa con conseguenti riforme dei protocolli dell’immigrazione.

LO SGUARDO

“Stateless” catapulta lo spettatore all’interno di un di queste strutture-prigione dove sistematicamente finiscono gli immigrati in Australia: reti e filo spinato dividono le fazioni, “rompendo” l’umanità fra chi ha tutto e chi non ha niente. Un sistema che tratta i migranti come numeri, che si limita a cibarli (male) e a dare loro un tetto, senza curarsi di come trascinano le giornate, nell’attesa di un colloquio con le autorità. Tutti prigionieri, tutti possibili terroristi, e tutti con una sola colpa: aver chiesto asilo politico. Intrappolati senza via di scampo, trascinati da una cella all’altra, lontani dai propri cari, battuti, vessati e umiliati. E chi ha una divisa e un manganello, ha il potere di vita e di morte. Ma anche chi tiene il manganello, alla fine, paga il conto di un lavoro che giorno dopo giorno si mangia un pezzo dell’anima. Come se in fondo tutti, carcerieri o prigionieri, burocrati o uomini d’azione, siano vittime di un potere più grande.

LE STORIE

Attraverso lo sguardo di una serie di personaggi, dalla protagonista Yvonne Strahovski (“Dexter” e “Handmaid’s Tale”) ai diversi rifugiati in cerca di riscatto o alla dirigente Claire (Asher Keddie) costretta a gestire la situazione dentro la struttura, “Stateless” ci mette tutti di fronte a quello che non vorremmo vedere. E che ci fa paura sapere. Prendendosi tutto il tempo che serve, alternando tensione a pause di riflessione con sguardi e gesti che svelano vissuti tremendi, la serie ci porta tutti  dentro un’unica scia di dolore. Perché nulla sembra mai cambiare davanti alle migrazioni di massa che travolgono i paesi del mondo: “Stateless” lascia poco spazio alla speranza, dando allo spettatore quel senso di crudele impotenza davanti alle ingiustizie. Per ricordarci che i “numeri” che sbarcano sulle coste di tutto il mondo sono persone vere e reali.

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Il Gazzettino