Spielberg nell'alveare della memoria tra mondo reale e immaginario

Spielberg nell'alveare della memoria tra mondo reale e immaginario
Non poteva finire altrimenti, nel senso che probabilmente a porre in modo definitivo la parola fine sul sempre più...

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Non poteva finire altrimenti, nel senso che probabilmente a porre in modo definitivo la parola fine sul sempre più aggrovigliato rapporto tra realtà e immaginazione in campo cinematografico doveva essere chi, più di altri, questo immaginario l’ha pensato, creato e consegnato al mondo. Ponendosi negli ultimi 40 anni, diciamo da quel famoso oggetto di culto che è “Duel” (siamo agli inizi degli anni ’70) come il portatore eccellente (certo assieme a Lucas e poi Zemeckis, Dante eccetera…) di un modello estetico che stabilì allora una frontiera storica sulla dialettica tra due mondi (distinti, eppure speculari; diversi, eppure convergenti), Steven Spielberg codifica da sempre la ragione della propria unicità d’autore e narratore, elevando tale confine a una specie di paradigma della propria inventiva all’interno di una folgorante carriera, tra l’urgenza di racconti ben saldi sulla Storia più controversa dell’umanità e l’inebriante sconfinamento nei sogni e nel regno del fantastico.
Oggi quindi con “Ready player one”, che giunge sugli schermi dopo riflessioni titaniche sulla società, non solo americana, come “War horse”, “Lincoln”, “Il ponte delle spie” e “The post”, contrappuntate puntualmente con “Le avventure di Tintin” e “Il GGG”, le due anime di Spielberg si chiedono se non sia il caso di porsi una domanda risolutiva sulla percezione e lo sguardo, in un’era dove la virtualità sta consumando una sintomatica rappresaglia sul concetto del reale, scardinandole da ogni sicurezza e supremazia. Siamo nel 2045, la Terra è nel caos, tra smog e popolamento spaventoso. Il giovane Wade Watts vive come tanti nelle cataste, contenitori disumani di quotidianità. Con il nome di Parzival, il suo avatar, cerca di risolvere il gioco sulla piattaforma virtuale Oasis, per aggiudicarsi l’eredità miliardaria dell’inventore James Hallyday, defunto da poco, secondo le sue ultime volontà. Ma dovrà lottare contro la temibile multinazionale IOI, guidata dal pericoloso Nolan Sorrento.
Traendolo dall’omonimo romanzo di Ernest Cline, qui anche sceneggiatore, Spielberg costruisce un armamentario colossale della memoria, rovistando nell’Arca infinita di ricordi, decodificando e sovrapponendo l’alternanza dei mondi contigui attraverso lo spericolato congegno delle citazioni, riflesso collettivo di ogni videogioco e riferimento cinematografico, dove il premio non è riconoscere più omaggi possibili, ma sapersi districarsi nell’indiavolato, smisurato alveare che si forma ai nostri occhi, nell’incomprensibile dualismo tra realtà e finzione. Nella nobile concatenazione che sfoggia tutto il carosello degli anni ’80, con una sublime “ricostruzione” kubrickiana, il film diventa un lussuoso, frastornante, ludico e perfino tautologico balocco ingannevole, dove il Graal, come sa ogni bravo Parsifal, raccoglie il frutto del più antico mistero, che è soprattutto capire cosa veramente stiamo vivendo. E vedendo.
Stelle: 4


TONYA: LA FACCIA INGRATA DEL SOGNO AMERICANO SCIVOLA SUL GHIACCIO - A differenza di “Un sogno chiamato Florida”, dove la percezione dell’emarginazione di un mondo non omologato resta più nelle intenzioni che nei risultati, “Tonya”, biopic firmato Craig Gillespie sulla controversa, turbolenta vita non solo agonistica della pattinatrice Tonya Harding, prima statunitense al mondo a eseguire sul ghiaccio il triplo axel, dimostra beffardamente come il sogno americano venga irreparabilmente negato a chi, nonostante possieda un talento smisurato, non condivide i meccanismi e i comportamenti oliati del successo. Tonya, troppo selvaggia per essere allineata alle altre graziose ballerine volteggianti e così grettamente audace nell’esibire se stessa nella vita e nello sport, finì nel baratro di un’esistenza tormentata da una madre oppressiva e violenta e da una sbalorditiva capacità di mettersi nei guai e farsi del male, fino a farsi bandire a vita da una federazione che vide il lei la mandante di un’aggressione, nella quale fu coinvolto anche l’ex marito, alla rivale Nancy Kerrigan, colpita a martellate sul ginocchio, prima delle Olimpiadi di Lillehammer, nel 1994.

Gillespie orchestra un film che, pur scompensandosi nei diversi tratti identificativi, dal mockumentary alla rappresentazione di un’epoca (gli anni ’70-’80, con relativa entusiasmante colonna sonora), fino alla ricostruzione psicologica di un personaggio disastrato dalla nascita, avvince ma non entusiasma, ricomposto con cura scorsesiana dentro una cornice saldamente grintosa e spiazzante, dove l’ennesimo loser si accascia sfinito da tanta ostilità, pagando comunque anche i propri errori. “Tonya”, che nella ridefinizione italiana del titolo perde la “I” iniziale inglese di “io” (un taglio inutile e inefficace, che sposta il polo della narrazione), vive comunque di performance attoriali gigantesche, non solo quella di Margot Robbie nei panni della protagonista, ma soprattutto quella di Allison Janney (premiata con Oscar e Golden Globe, come miglior attrice non protagonista), che dà alla madre LaVona i tratti di una tragica, spregiudicata, devastante figura autoritaria sulla figlia, a cominciare dalla prima, eloquente scena. 
Stelle: 3


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Il Gazzettino