Sfavillante fenomenologia di Elvis: funziona la "barocconata" di Luhrmann

Sfavillante fenomenologia di Elvis: funziona la "barocconata" di Luhrmann
Certo si può detestare il cinema di Buz Luhrmann. È facile. Chi possiede una creatività spesso non...

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Certo si può detestare il cinema di Buz Luhrmann. È facile. Chi possiede una creatività spesso non placidamente assimilabile, sa di andare incontro a fan sfegatati e detrattori sarcastici. Il suo cinema è delirante fino alla spossatezza, si sfoga continuamente nel suo armamentario kitsch: urla, ammassa, confonde, sovraespone, cede facilmente alla “barocconata”, martellando lo spettatore anche quando il riverbero dei suoi personaggi, reali o immaginari, consentirebbe una rappresentazione più piana. Ma con il regista australiano questo non accade mai: con lui si va sulle montagne russe.

Non poteva quindi che deflagrare questo biopic dedicato a Elvis Presley, dilatato e dilaniato dentro a scossoni continui di montaggio, reclamizzando una propria audacia di orchestrare una vita talmente esagerata, e durata appena lo spazio di 42 anni, con altrettanta baldoria di immagini, perché forse, al di là di tutto l’apparato estetico su cui poggia il cinema di Luhrmann (e qui siamo perlopiù dalle parti di “Moulin Rouge!”), una vita così eccessiva non poteva che essere raccontata così. E quindi, se si esclude solo “Australia”, non caso il suo film meno riuscito, era quello che ci si poteva attendere. 

Sfavillante nella ricostruzione storica, non restio a rappresentarne tutte le contraddizioni, la lettura del Mito di un cantante che ha venduto dischi come nessun altro, è una sorta di manifesto imponderabile di un fenomeno probabilmente non replicabile, non soltanto attraverso l’istinto, il carattere, la sfrontatezza (anche di richiamo sessuale: d’altronde Elvis the Pelvis) dell’individuo, ma anche di tutta una società (vengono ricordati omicidi celebri, dai Kennedy a Martin Luther King, fino a Sharon Tate) e un’industria che di quei miti sapeva (e sa) cibarsi senza sentimentalismi: e la parabola successivamente (auto)distruttrice porterà Elvis a una morte precoce. 

Percorrendone le tappe nel luccichio dorato ma sufficientemente prodromo di tragedia, Luhrmann costruisce un Elvis tra il vero e il possibile, divorato dai successi e dalle polemiche (le accuse di razzismo, l’appropriazione della black music, le accuse di esibizioni sul palco esplicitamente erotiche), destinando il celebre concerto di Las Vegas nel 1971, qui magnificamente ricostruito, a momento topico di una carriera e di una vita intera. Straordinaria l’interpretazione di Austin Butler, autentica rivelazione, mentre spetta a Tom Hanks dar vita al mefistofelico colonello Parker, il manager spregiudicato che si vanta a inizio film di essere l’unico inventore del Mito (non senza un po’ di verità), perché il talento da solo quasi mai basta. E tra i tanti biopic su divi musicali degli ultimi anni, di quello dedicato a Elvis resterà almeno il rumore. Voto: 7,5.

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Il Gazzettino