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Che la moda , da sempre, nella scena dell’umano sia la materializzazione di come vorremmo apparire, il vestito destinato a raccontare la nostra verità, o al contrario, mascherarla, truccarla ai fini del ritratto di noi che vogliamo dare, è discorso annoso , ma mai affrontato con sincerità. Nelle polemiche suscitate dall’opportunità di valutare i messaggi della moda nel contesto del vissuto quotidiano, del sociale che contrassegna la nostra vita , sono sempre emerse valutazioni di comodo, sollecitazioni opportunistiche, politiche, ideologiche, religiose, istanze dettate dal timore di non apparire allineati con le teorie vincenti o al contrario di non essere considerati abbastanza ribelli all’omologazione. In passato le risposte, più o meno gradite, venivano affidate alle famose leggi suntuarie che all’improvviso dicevano basta agli eccessi di perle, di piume, di gioielli, di merletti , di sfarzo che con la scusa di mettere freno agli sprechi metteva il potente di turno al riparo da confronti o evidenze di ricchezza da parte di rivali temibili. Oggi si ricorre all’ aiuto di un dress code (si usa dirlo nel nuovo linguaggio italo-anglo-americano che favorisce l’ambiguità prestandosi a necessaria traduzione): è una sorta di codice del comportamento che in particolare riguarda il modo di vestirsi (che si vorrebbe fosse il modo di “essere”). Ma i conti vanno fatti anche sull’onda della rivoluzione culturale che da cinquant’anni invita alla dissacrazione verso tutto ciò che era stato prima , che ancora ribolle per certi aspetti dopo mezzo secolo teatro di tante discussioni, scontri, accuse e difese talvolta “politicamente corrette” , altre volte pretestuose, alimentate da una ribellione che ha sempre utilizzato la moda come strumento di lotta.
La Moda, obbediente, esegue, tramite stilisti emergenti in cerca del “nuovo”, per niente turbata se il suo messaggio osè riguardi una esibizione di disponibilità o di quasi disponibilità al piacere affidati al gioco del “quasi nudo” , o al contrario , se di arcaica discrezione, di riservatezza estrema.
Su moda e dress code , ovvero abito d’ordinanza, una polemica pesante in questa fine d’aprile sta agitando la quiete di Cassina de’ Pecchi, piccolo centro dell’hinterland milanese, a seguito della contestazione per una postilla del regolamento urbano di polizia (art. 23) che oltre a ribadire per i poliziotti il divieto di “concordare prestazioni sessuali, o anche solo intrattenersi con soggetti che esercitino attività di meretricio su strada” , indica imposizioni che vieterebbero l’abbigliamento “sexy” o comunque “un genere di vestiario che possa suscitare desiderio sessuale”.
Rivoluzione sui social, proteste e satira contro questo dress code che “invade la privacy”, “non rispetta la persona”, “è arrogante”, “ si serve della moda per umiliare”. ..
“Se mi piace - scrive su Facebook una giovane di Cassina de’ Pecchi, inveendo contro la norma - anche se scelgo di fare il poliziotto posso portare quanto voglio minigonna e tacchi a spillo.”.
La moda infatti non può tener conto, perché non è suo compito , se il tacco 12 (oggi tra l’altro un tantino vintage!) possa essere o meno un impedimento al reale svolgimento del lavoro, metti - nel caso di un poliziotto/a - l’inseguimento di qualche malavitoso che potrebbe essere battuto in velocità dal fuggitivo su sneaker piatte. E la moda...ci guarda.
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Il Gazzettino