Paolo Rossi saltimbanco: «Sono tempi difficili. E noi comici siamo un genere di conforto»

Paolo Rossi in tour con "Scorrettissimo me - Per un futuro, immenso repertorio” (foto Condini)
Sono tempi difficili, sul palco e fuori dal palco. Paolo Rossi lo sa, ma al consueto “tanto vale riderci su”, preferisce registrare “il disorientamento”...

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Sono tempi difficili, sul palco e fuori dal palco. Paolo Rossi lo sa, ma al consueto “tanto vale riderci su”, preferisce registrare “il disorientamento” che ci affligge, e raccontarlo a modo suo, con quel tocco irresistibilmente surreale in grado di trasformare il caos che ci circonda in una esilarante parodia di noi stessi. In fondo, siamo capaci di digerire senza fiatare la dittatura del pensiero unico, la cancellazione della memoria, le nuove censure del politically correct, i virus dell’informazione, la schiavitù di una tecnologia che finge di aiutarci. «Noi siamo saltimbanchi, non possiamo che raccontare il caos diventando il caos sul palco» e sul palcoscenico di un teatro sold out – il Sant’Anna di Treviso, ospite della rassegna “Satira invece” del Gruppo Alcuni, poi in tour in Friuli - l’artista si diverte a regalare spunti di arguta riflessione. Il suo nuovo “Per un futuro, immenso repertorio”, spettacolo che mescola stand up, commedia dell’arte, canzoni, omaggi ai maestri Jannacci, Gaber e Fo, e divertenti sguardi sull’attualità, diventa così un «genere di conforto», come il pane in tempi di crisi, per farci scoprire dove stiamo andando. O forse dove non stiamo andando.

LA SERATA

Affiancato dai Virtuosi del Carso, i musicisti-spalla Emanuele Dell’Aquila, Alex Orciari e Stefano Bembi, Rossi chiama in causa gli spettatori, sempre parte attiva dei suoi spettacoli. Ecco allora pezzi di vita vera, rivisti e riarrangiati a modo suo («anche se non è vero, è vero per noi»), memorie ritrovate, scherzi, giochi e barzellette, bizzarre follie che solo chi sa «mettere la maschera e abitare le vite degli altri» sa ideare. Piaceranno? Poco importa, come diceva Jannacci, «meglio un fiasco trionfale che un cordiale successo». La Rossi & C. affronta «questi tempi difficili» col coraggio di chi sa improvvisare, proprio come i saltimbanchi: «Avete bisogno di ridere, ballare e farvi una bella cantata in compagnia? Eccoci, siamo disponibili per matrimoni, battesimi, feste di divorzio, occupazioni di fabbriche o case, ospiti, anche per strada o sotto i ponti». Il teatro, in fondo, si fa dove la gente si riunisce e condivide un pensiero o una risata, e i teatri “non otodossi”, quelli “d’emergenza” che piacciono tanto al comico milanese, si trasformano in “serate illegali” piene di domande. Non come accade nei teatri “ufficiali” dove «ormai recitano tutti, e meglio degli attori. Oggi si fanno letture, sono le truffe del teatro dei reading».

GLI OBIETTIVI

Rossi come sempre abbatte la quarta parete, il pubblico sta al gioco e risponde, applaude, gli risponde, tanto più quando comincia demolire, tra giochi e barzellette i “politically correct” ormai dominanti, «dove tutti si incazzano», dai gay, ai ciechi passando per gli Alpini e “gender fluid”, pare che tutti fatichino ormai a distinguere una battuta da un’offesa. «La satira è un genere di conforto nobile – avverte Rossi – ma non è la parodia della parodia: imitare qualcuno che è già un imitatore non funziona», quindi meglio cambiare obiettivi. E ritornare ai ricordi, trasformati in materia viva: c’è l’attimo di follia vissuto con Jannacci che osa attraversare in auto Galleria Vittorio Emanuele, a Milano, agitando un fazzoletto bianco; c’è l’incontro spiazzante con Berlusconi «quando è sceso in campo» al Maurizio Costanzo Show («quanto ci ha fatto guadagnare! Non c’era neanche bisogno di scrivere i testi, la gente rideva e poi lo votava»), ci sono le partecipazioni alle feste dell’Unità quando «eravamo pagati in nero dai rossi, che divertente», ma anche costretti ad esibirsi su piccole pedane messe in mezzo a «una ludoteca per bambini isterici, alla balera di musiche romagnole, con dietro quelli che friggevano le salamelle. E che ora continuano a friggere, ma a Pontida dalla Lega».

LA POLITICA

C’è la politica che disorienta, «sarei di sinistra se sapessi dove mettermi», c’è l'entrata al bar dei fascisti in cerca di un gabinetto («Ma non hai paura che tornino i fascisti? Perché? Se ne erano andati via?»), c’è Amleto col suo “essere o non essere” in balia di pause e di vuoti di memoria, e c’è la tecnologia che ti obbliga a ordinare un «caffè d’orzo in tazza grande» a una macchina parlante, «per poi doverti rivolgere al barista e ripetere tutto». C’è il mercato del lavoro che annaspa, «come la spieghi la globalizzazione? C’è una fabbrica che va bene e chiude. Ma riapre in Finlandia. Come si dice: si chiude una porta e si apre un portone. Ma a Helsinki. Le cose vanno in senso inverso e questo aumenta il disorientamento». In un mondo dove uutto sembra andare per conto suo, persino le canzoni faticano a trovare il loro posto. Come Battisti, «dovevo cantarlo di nascosto quando stavo con una di Autonomia operaia», e un classico come i “I Giardini di marzo” precipita così in un cortocircuito di non-sense. Vie d’uscita? Nessuna. Neanche l'amore  può ripararci dal “tempi difficili”. Basta una telefonata, quando lei «mette la voce da combattimento e ti risponde “Dimmi”... Sai che è finita». 

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Il Gazzettino