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Robertoooooooooo: e sembra di sentire ancora una volta l’eco dell’urlo di gioia di Sophia Loren, in quella notte degli Oscar, nella quale, come non mai, sulla figura di Benigni si concentrò il massimo entusiasmo, ma anche le perplessità non meno rilevanti, per una consacrazione dettata più dal sentimento (anche un po’ facile) che dalla ragione, soprattutto cinematografica. Il Leone alla carriera a Roberto Benigni, annunciato ieri dalla Biennale, è in ogni caso una scelta decisamente pop. Anche un po’ furba (non ha un significato negativo), ben consapevole di essere destinata a incontrare un’eco enorme, a cominciare dal rimbalzo della notizia mai così rumoroso, sottolineata anche in quei telegiornali che solitamente si astengono quando si tratta di attori, registi e quant’altro solo mediamente popolari, figurarci di nicchia. In questo è un premio molto pragmatico, proprio perché non è il riconoscimento a esaltare il destinatario, bensì il contrario.
Ci sono altri aspetti che danno come comprensibile questa attribuzione: intanto è un italiano e in questo tempo disgraziato rincorrere spostamenti da una nazione all’altra, da un continente all’altro resta un bell’azzardo, specie alla luce della continua illusione sui vaccini distribuiti a tutti entro l’estate, ogni giorno spezzata da notizie di estrema incertezza, con un peso ancora maggiore rispetto all’anno scorso, proprio per il pregresso di questa durata interminabile; ma soprattutto la presenza di un guitto, di un saltimbanco ingovernabile sul palco, prima ancora che attore, regista e sceneggiatore assicura un evento-fiume capace di strappare risate, divertimento, spensieratezza (certo non solo, ma si sa che andrà soprattutto così), pronte a scacciare almeno momentaneamente i lugubri pensieri che ci accompagnano ormai da oltre un anno.
Che poi, a ben guardare, il pedigree di attore non è certo banale, avendo dato volto a personaggi in film di Bertolucci, Ferreri, Citti, Fellini, Blake Edwards, Allen, Garrone e ovviamente Jim Jarmusch, non solo per quel “Daunbailò”, in cui finito in carcere per errore in America, evade insieme a Tom Waits e John Lurie, in una fuga esilarante tra le paludi. Certo è un attore capace di modellarsi anche su piani più malinconici, come quello nel felliniano “La voce della luna”, assieme a Paolo Villaggio, o su personalità anticonvenzionali, come il maestro alternativo nel ferreriano “Chiedo asilo”; semmai a convincere meno è il regista, il quale attraversa momenti di esaltazione al botteghino, bagliori di gloria come accadde appunto con “La vita è bella” (tre Oscar: a lui come attore protagonista, al miglior film straniero e alla celeberrima colonna sonora di Piovani; Gran Premio a Cannes), momenti scanzonati (“Il piccolo diavolo”, “Johnny Stecchino”), altri più approssimativi (“Il mostro”), tonfi abbastanza evidenti (“Pinocchio”, “La tigre e la neve”), senza dimenticare l’accoppiata vincente con Massimo Troisi per “Non ci resta che piangere”.
Una carriera intensa tra teatro, televisione e cinema, fin dagli albori arboriani (“L’altra domenica” e il famoso monologo sul Giudizio Universale nel film “Il Pap’occhio”), quando una surreale irriverenza e una provocatoria, fluviale esuberanza hanno portato a personaggi come il proletario Cioni, a battute come “Wojtylaccio”, a tellurici duetti con il “pisello” di Pippo Baudo e la “patonza” di Raffaella Carrà, sempre in bilico tra il greve e il goliardico, andata via via spegnendosi in un afflato ecumenico, vagamente mistico, tra i “Dieci comandamenti” e la lettura abbondante della dantesca “Divina Commedia”.
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