La mano di Dio, la mano di Sorrentino: il suo film più personale e sincero

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Affrontare i film di Paolo Sorrentino è come correre sempre in una doppia, opposta direzione: da un lato non si può certo non riconoscerne il talento, la capacità di mettere in scena storie e situazioni costruendo in modo autoriale una complessità architettonica popolare, attraendo quindi lo spettatore più esigente e, al tempo stesso, quello più contentabile; ma non si può nemmeno sorvolare su un’esuberanza incontenibile, che lo porta a scelte, non solo estetiche, di dubbia necessità, spesso deformate da un barocchismo incontrollabile, dai tratti esornativi, privilegiando una forma non di rado superflua. Per questo “È stata la mano di Dio” risulta essere non solo il suo film più “potabile”, ma anche quello in cui il regista napoletano manifesta un autocontrollo raro, proprio perché parlare della propria vita in modo diretto, raccontarla a partire da una grande tragedia capitata in età adolescenziale, è tutt’altro che semplice. Paolo Sorrentino l’affronta certo alla sua maniera, soffermandosi però sui tratti fondamentali della sua esperienza e sulla nascita del suo cinema, forse con una umiltà mai emersa finora. Il titolo chiarisce subito che il riferimento è al grande Maradona (e al gol più straordinariamente “falso” della sua carriera), ma anche alla presenza del destino, grazie al quale da quella tragedia Sorrentino si salvò, preferendo andare allo stadio a vedere giocare Diego, e non in montagna con i genitori, che morirono nella notte per il famigerato monossido di carbonio. Se il regista napoletano non rinuncia ad alcuni suoi vezzi più ricorrenti, la messa in scena è sincera e il dolore autentico, che si respira in un’adolescenza solitaria e problematica, come nella scena straziante dell’obitorio, elaborazione finale del proprio lutto, raccontato con asciuttezza mirabile. Certo è sempre sopra le righe il grottesco che trasfigura il reale, trasformandolo in quello scenario immaginario che discende notoriamente da Fellini (come le ossessioni risapute, a cominciare dallo sguardo sulle donne), qui citato al pari di Zeffirelli e soprattutto Antonio Capuano (che sarebbe stato bello vedere nella parte di se stesso). Ma nella prima parte, in quella giocosa rappresentazione, cordialmente volgare, della quotidianità partenopea, ci si diverte volentieri e la caratterizzazione dei personaggi vive di quella trivialità allegra che fa folklore e luogo comune, non solo per la passione smodata per il calcio. Poi, dopo la tragedia, il film disperde forse la sua forza, ma restano intatte le interpretazioni generose (soprattutto Toni Servillo e Teresa Saponangelo, i genitori), senza dimenticare il giovane Filippo Scotti (Fabietto/Paolo), premio Mastroianni a Venezia, che dà una sofferenza empatica al personaggio autobiografico. Film in sala per qualche settimana, prima di passare su Netflix da metà dicembre. Voto: 6,5.

 

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Il Gazzettino