La luce sugli oceani, ma in sala è buio Padri & figli, tanti film ma nessuno brilla

La luce sugli oceani, ma in sala è buio Padri & figli, tanti film ma nessuno brilla
Difficile spiegare cosa possa aver spinto un regista emergente come Derek Cianfrance, abile fin qui nel dimostrare come gli...

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Difficile spiegare cosa possa aver spinto un regista emergente come Derek Cianfrance, abile fin qui nel dimostrare come gli amori anche forti e sinceri possano essere comunque distruttivi e capace di sguardo e sensibilità non comuni nei precedenti “Blue Valentine” e “Come un tuono”, a firmare una sconsolante opera come “La luce sugli oceani”, forse il peggior film presentato in concorso all’ultima Mostra di Venezia. Qui lo struggente diventa tormento calligrafico, il malessere esistenziale si trasforma in esorbitante sciagura, il doloroso melò si accende di rime parossistiche e la storia s’infrange, come le onde sugli scogli che divorano quasi tutto il film, tra tensioni e momenti tragici, che la sceneggiatura, dello stesso Cianfrance, accompagna maldestramente.
Siamo in Australia, alla fine della I Guerra mondiale. Tom (Michael Fassbender) è il guardiano di un faro di una piccola isola, lontana dalla terraferma. Vive assieme alla moglie, che ha già subìto due aborti. Un giorno su una barca naufragata nei pressi dell’isola trovano una neonata, accanto al cadavere di un uomo, probabilmente il padre. Decidono di non denunciare la scoperta, tenendo con sé l’infante, finché un giorno non arriva una donna che dice di essere la vera madre, chiedendo ovviamente la restituzione della bambina.
Il tema cruciale nei lavori di questo poco più che 40enne regista Usa resta quello della coppia, che estremizzando desideri e colpe, in un’ambientazione sociale di continuo disagio, consuma le proprie speranze. Ma stavolta Cianfrance, aiutato malissimo anche dalle note invadenti di Alexandre Desplat, spreca silenzi, solitudini, desiderio materno, sensi di colpa e una società chiusa (siamo, come detto, agli inizi del ‘900) in un’orgia cartolinesca di vuote vicende e spenti quadretti neomalickiani, culminando in alcune scene francamente deprecabili (la tragica notte tempesta, le croci allineate, la vista al cimitero con la vera madre, la visita nel finale della bambina, ora adulta).
Tratto dal romanzo omonimo di M. L. Stedman, di cui amplifica ogni ingorgo possibile, ha una sua discreta forza almeno negli attori: Michael Fassbender prova a dare dignità al suo personaggio, anche negli imprevisti cambiamenti, ma è più brava Alicia Vikander, le cui scelte provocheranno dolore in troppe persone. 
Stelle: 1½


IL PADRE D'ITALIA - Paolo (Marinelli) è in crisi con il suo compagno. In una darkroom incontra Mia (Ragonese), estroversa e problematica. Decide di accompagnarla, attraverso un “viaggio in Italia”, da Torino alla Calabria, facendo i conti con la propria mancanza di futuro e il desiderio di paternità.
Dopo “Il sud è niente”, che gli era riuscito meglio, Fabio Mollo costruisce un itinerario didascalico, che sfoggia una disinvoltura eccessiva nel racconto, dall’improbabile incontro nel locale gay agli snodi che si accontentano di descrivere personaggi e situazioni in un modo spesso stereotipato. La forza che innesca tematiche forti, lascia controverse scie di perplessità, non solo sul versante “contronatura”. E poi troppa voglia di assomigliare a Dolan, quando forse non si va oltre Ozpetek.
Stelle: 2


VI PRESENTO TONI ERDMANN - Una giovane donna in carriera (Inès) di una importante società tedesca, riceve la visita del padre a Bucarest, al quale è appena morto il cane. Il genitore, distrutto da una solitudine inconsolabile, inizia a invadere la sua vita, spuntando nei momenti meno opportuni e assumendo varie identità.
La tedesca Maren Ade impiega lo sproposito di quasi tre ore per spiegarci una cosina semplice qui risolta in fondo anche in modo banale (lo fa alla fine il papà, che la spiega non si dovesse averla capita): la vita è altrove non nella carriera e sta nei rapporti con le persone, i ricordi, gli affetti. Passata all’ultimo festival di Cannes, dove ha diviso abbastanza nettamente le sensazioni e spesso gratificata da diversi premi un po’ ovunque, è una commedia dai risvolti grotteschi nella quale finiscono troppe cose: l’accumulo è progressivo e interminabile, si ride abbastanza pur in un contesto amaro, ma è una montagna che partorisce il topolino e in fondo anche l’idea migliore (il naked party) è sprecata. Bravi comunque Sandra Hüller e Peter Simonischek.
Stelle: 2½

PASSERI - Con la madre in partenza per l’Africa, l’adolescente Ari deve lasciare Reykjavik e tornare nelle lande deserte islandesi con il padre, abbandonato da tempo all’alcol: qui troverà un ambiente ostile, dove la mancanza d’affetti, esclusa una vecchia conoscenza scolastica, farà il resto. Un coming of age di un ragazzo raccontato in modo spesso didascalico, ma non privo di qualche durezza. “Passeri” è un film onesto, dove Rúnar Rúnarsson poteva però osare qualcosa di più.
Stelle: 2

MISTER UNIVERSO - Tairo è un giovane domatore in un circo che si sposta nel centro Italia, in zone spesso degradate. Si mette a cercare il mitico Arthur Robin, oggi ultraottantenne, “Mr. Universo” nel 1957, che piegava il ferro e che gli aveva donato un portafortuna (un ferro appunto piegato), ora rubato.

I documentaristi Tizza Covi e Rainer Frimmel restano nell’ambiente circense, luogo di preferenza del loro cinema. Menzione speciale all’ultimo festival di Locarno, coinvolge di meno negli aspetti più legati alla fiction, ma sa catturare ancora una volta un mondo in dissoluzione, una sopravvivenza aspra ma non priva di slanci umanitari. Distribuito dalla neo nata casa padovana Tycoon. 
Stelle: 3 Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino