La fine della dittatura, la fine dell'umanità Rodríguez appassiona, Nossiter annoia

La fine della dittatura, la fine dell'umanità Rodríguez appassiona, Nossiter annoia
La caduta del tiranno, la riscoperta della democrazia e della libertà. La Spagna, che dopo la metà degli anni...

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La caduta del tiranno, la riscoperta della democrazia e della libertà. La Spagna, che dopo la metà degli anni ’70, trova finalmente l’addio al dittatore Franco, il Paese che pian piano affronta il risveglio. Tuttavia mentre all’esterno la frenesia scatena ogni angolo delle città, ci sono zone dove appare immediatamente difficile questo processo immediato. “Prigione 77” racconta la dura vita del carcere, dove molti erano rinchiusi per reati politici, dove una parola come amnistia non fu concessa allora e, come spiegano i titoli di coda, non arrivò mai. Conosciamo subito Manuel, che ha il volto morbido di Miguel Herrán: si capisce che non è un detenuto come gli altri. È appena entrato in carcere. Veste in modo elegante, ma di lì a poco sarà brutalmente spogliato e portato in isolamento senza materasso per dormire. È un contabile ed è accusato di avere sottratto una forte somma di peseta, ma lui nega ridimensionando fortemente il malloppo. Ma quello che conta in un carcere di una dittatura, per quanto ormai moribonda, è la parola dello Stato. E quindi ora rischia una condanna piuttosto lunga. Partendo da un fatto di cronaca vero (all’epoca ci furono 79 evasioni e 175 persone in fuga), qui riassunto spesso in modo romanzato, il regista andaluso Alberto Rodríguez, del quale si ricorderà soprattutto “La isla minima”, il suo film più famoso e forse anche più bello, costruisce un robusto film carcerario, che guarda a molto cinema hollywoodiano, senza mai strafare, e nello specifico a opere immediatamente di riferimento, da “Fuga da Alcatraz” fino a “Fuga di mezzanotte” e “Le ali della libertà”. Pur senza rinunciare a diversi episodi di violenza e al clima di repressione costante da parte delle guardie, nonostante dal Paese esterno arrivino segnali di apertura, il film non diventa mai veramente crudo e feroce, cercando di costruire un’opera che sappia essere anche popolare oltre che avvincente; ma è capace di sondare con sensibilità sia quei rapporti di solidarietà tra i detenuti (si veda anche la costituzione di una forma di rappresentanza dei reclusi nelle trattative che via via si sviluppano), nonché negli improvvisi tradimenti, tra chi crede nella lotta e chi pensa di poterne fare a meno per ottenere dei favoritismi, grazie alla sceneggiatura dello stesso regista e del sodale Rafael Cobos. Con qualche colpo di scena di troppo, il film assume l’andamento di un thriller che racconta la voglia di libertà, dove questa è doppiamente esclusa, come un elastico che vede ogni giorno avvicinarsi e allontanarsi la possibilità di essere finalmente scarcerati. Bello e commovente il finale, dove anche l’amore trova, nella giusta dimensione, il posto tra le cose conquistate, mentre chi è stato amico fino all’ultimo, si saluta andando incontro al mondo nuovo. Voto: 7.

IL CINEMA SALVEZZA DELL'UMANITÀ - Nel 2086 l’umanità sarà estinta. Quasi. Vive ancora un giovane africano, che davanti alla macchina da presa all’inizio ci informa di essere l’unico superstite al mondo. Jonathan Nossiter scrive, dirige e monta “Last words” che vuole assegnare al cinema la memoria e la sopravvivenza, portando Kalipha Touray in un viaggio tra le macerie dall’Italia alla Grecia, assieme a Nick Nolte, ex regista che fa da guida. Ma l’insieme è appesantito da un eccesso di didascalismo, da una parata di star abbastanza ininfluente e una storia che non emoziona mai, al contrario, per dire, del solitario WALL.E con il suo “Hello, Dolly!”. La voce fuori campo appensantisce la narrazione e la durata del film non aiuta. Anche l’amore per il cinema andrebbe dosato. Voto: 4,5.

 

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Il Gazzettino