I morti non muoiono ma non fanno ridere Il ragazzo è bello, ma il film decisamente no

I morti non muoiono ma non fanno ridere Il ragazzo è bello, ma il film decisamente no
Di paura si può morire. Di paura di può tornare anche in vita. Ma soprattutto di paura si può anche...

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Di paura si può morire. Di paura di può tornare anche in vita. Ma soprattutto di paura si può anche ridere. Però questo risultato il film lo ottiene poco.
Siamo a Centerville, una qualsiasi cittadina Usa di provincia, apparentemente tranquilla, il giusto habitat perché là dove vige la quiete, è pronta a esplodere sempre la tempesta. Ce l’ha insegnato a lungo Stephen King, lo abbiamo capito attraverso tutti gli horror, che partono da questa situazione e poi finiscono nel delirio più assoluto. E d’altronde Jim Jarmusch lo dice fin dal titolo: “I morti non muoiono”. Dunque se i morti non muoiono sappiamo già che siamo dentro a un film di zombi.
Ma non tutte le storie di mostri e dintorni funzionano sempre bene, nemmeno se sei il grande Jim Jarmusch e qualche anno fa hai diretto un meraviglioso, struggente, darkissimo film di vampiri (“Solo gli amanti sopravvivono”), passato anch’esso al festival di Cannes. Stavolta il ricordo del film evapora invece presto: non solo appare fragile il tratto parodistico tipo “Per favore, non mordermi sul collo!”, di polanskiana memoria, ma soprattutto il film si ripete in siparietti al massimo simpatici, che afflosciano il lato comico di questi morti che scoperchiate le tombe si mettono a far paura, giostrando dei continui malintesi con le forze dell’ordine, impreparate a tanto trambusto.
Certo la metafora politica è piuttosto chiara:  il tema dell’Uomo che sta distruggendo il pianeta è una violazione che chiede il conto. La Terra sposta il suo asse, la Luna si mostra in cielo sempre inquietante ed è evidente come un’economia sociale antiecologica produca nefasti risultati, non ultimo portare Trump alla Casa Bianca (occhio al capellino dell’esagitato Steve Buscemi). Ma francamente il disegno è debole, ripetitivo e arriva un po’ esausto come originalità.
Gli stessi protagonisti riciclano cliché consolidati: ecco l’ennesimo sguardo attonito di Bill Murray, il carnevale di teste tagliate con la katana da Tilda Swinton, la consueta inafferrabilità di Adam Driver; la stravaganza si esalta nella dimensione stupefatta degli accadimenti (e anche nel suo metalinguismo, come quando gli attori discutono sulla sceneggiatura…). E il giro dei soliti amici cinefilo-musicali, da Iggy Pop a Tom Waits, dà il tono di commedia scherzosa, che sembra una parentesi di relax.
Certo l’inno di questi morti che escono dalle tombe è un omaggio a George Romero, del quale si disperde tutta la sovversiva e il pessimismo regna comunque. Solo chi riesce a starsene lontano, spiando questa spirale di follia cimiteriale, si salverà. Come dire: restando fuori dalla “civiltà” non si muore. Voto 5,5.

BEAUTIFUL BOY, MA IL FILM NO
- Se a volte è comprensibile che crescere nel degrado sociale e familiare, spesso ai margini di una società distante, all’interno di quotidianità turbolenta possa portare giovani sbandati a drogarsi fino all’annientamento di sé, più complicato è capirlo all’interno di una famiglia istruita, agiata, con un padre giornalista, pur in un contesto di genitori separati. È quello che capita a David (Steve Carell) che vede sciupare sempre più la giovinezza da Nicholas (il Timoyhée Chalamet di “Chiamami col tuo nome”), ragazzo bello e dannato.
Tratto dai libri di David Sheff, che raccontano lo strazio di un calvario paterno, e diretto da Felix Van Goeningen (di cui si ricorda almeno il sopravvalutato “Alabama Monroe”), il film si snoda noiosamente in questo complicato rapporto tra genitore e figlio, ammaestrando lo sguardo a un racconto discontinuo nel tempo e sempre a caccia di un’intensità artefatta.

“Beautiful boy” risulta un film esteticamente fastidioso (troppo patinato per raccontare una discesa agli inferi), furbetto nella colonna sonora usata a effetto (da Massive Attack a Sigur Rós, dai Nirvana a Neil Young, perfino Perry Como e ovviamente John Lennon) e inerte narrativamente: dura due ore, ma un quarto d’ora è sufficiente. Voto: 4. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino