I MIGRANTI DEL LINGUAGGIO NUOVI PATETICI SNOB

I MIGRANTI DEL LINGUAGGIO NUOVI PATETICI SNOB
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Sul superfluo è basata la fortuna di tante firme, di prodotti lanciati sul mercato con lo specchietto per le allodole di una pubblicità azzeccata. Il nascere dei “bloggers” ( addetti alla promozione informatica) , degli “influencers” ( modelli di imitazione), si deve soprattutto alla vacuità che nella moda sa diventare valore intrinseco, motore di successi o di cadute. Soprattutto al valore assoluto del denaro ritenuto più potente di quello dell’arte, della creatività.

Che la moda abbia spesso occasioni di intreccio con lo snobismo non è una novità: da Lord Brummel a noi , adottare un certo tipo di nodo per la cravatta, l’uso del  foulard, la personalizzazione di oggetti protagonisti di un look, una borsa, le scarpe, la foggia di un abito, un colore, un modo di atteggiarsi , un modo di parlare, sono
diventati “mode” destinate a durare a volte solo una stagione oppure a imporsi creando mutamenti di fatto nel modo di vivere e di comunicare. L’ultima in ordine di tempo è senz’altro la moda volgare, propinata come eccezione snob, degli inglesismi nel linguaggio corrente, cominciata per necessità reali nel mondo
scientifico, aperto a una internazionalità imprescindibile, e acquisita nel linguaggio quotidiano anche dalla nomenclatura di Stato per il nome di Dicasteri, dai giornali quotidiani o periodici dove gli inglesismi stanno diventando un nuovo linguaggio paragiornalistico, comprensibilmente tra i  migranti che debbono arrangiarsi tra due  o  più lingue ma soprattutto nel mondo della moda, della vanità, del superfluo che in certi casi è divenuto l’essenziale della nostra vita.
Hanno cominciato alcuni studi di pubbliche relazioni, incentivati soprattutto dall’opportunità di inviare messaggi scritti in forma corretta (e l’italiano non è per tutti un atto dovuto!) , che venivano stilati da ragazzotti assunti in virtù di stipendio en amitiè,
incapaci di scrivere una frase quanto meno leggibile in italiano.
Che arrivino dall’Olanda o dal Regno Unito, dall’America o dall’Australia  (ma anche da contrade nostrane di ogni punto cardinale) sanno esprimersi tutti in un inglese maccheronico , ricambiato dai pusher di pubblicità italiani e apprezzato moltissimo da chi non conosce bene né l’italiano né l’inglese e quindi opta decisamente per la seconda via meno soggetta a verifiche e giudizi. Comunque ritenuta “culturalmente” gratificante.
Questa “moda” di inglesizzare l’italiano, stigmatizzata oggi più di ieri da molti lettori con proteste evidenziate (in forma di lettera) anche nel giornale per il quale scrivo, deve il suo successo prima di tutto all’ignoranza spacciata per “moda culturale”.
Pochi comunque sottolineano che si tratta di una moda “cafona” (forse sarebbe meglio per farci capire dirlo in inglese?), una mancanza assoluta di rispetto non solo per un bene culturale  come la nostra lingua ma anche nei confronti di chi  potrebbe non conoscere l’inglese ( un’ignoranza delle situazioni che  il povero antico Panzini stigmatizzava come ​prodotto di totale ineducazione!). Ma qui qualcuno potrebbe ricordarci che l’educazione non esiste più, è “vintage”:  affermazione che  ovviamente raccoglie il consenso di tutti i maleducati. Oppure sostenere che il Panzini è antico: vorrei rispondere che lo è anche l’uso delle posate a tavola!  Restano esenti dall’assegnazione sincera di snob, di cafoni solo i migranti che ovviamente conoscono poche parole di italiano e poche di inglese che si sovrappongono: esattamente come accade a molti giornalisti, conferenzieri, politici, amministratori e governanti italiani. Sono i migranti dell’italiano.

Un giorno scrissi a un pi-erre tra i più noti ai nostri giorni  che se continuava a mandarmi le comunicazioni in inglese mi costringeva a scrivere il mio articolo in quella lingua, dicendogli che sarebbe stata fatica sprecata perché “forse il mio direttore non avrebbe accettato di pubblicare nel suo quotidiano italiano un articolo in inglese" . Ovviamente non comprese l’ironia   (forse è un po' "vintage"  anche quella!) e rispose che ordini superiori lo obbligavano a presentare le novità dell’azienda in lingua inglese. La globalizzazione che ha travolto la nostra vita ha trovato però uno scoglio nel coronavirus. La pandemia che ha paralizzato tante attività e che sta mettendo a rischio abitudini e certezze ha offerto anche spunti di riflessione: uno fra tutti potrebbe essere l’opportunità di non vergognarsi della propria lingua (che è tra le più ricche e belle del mondo!), di parlare con le parole giuste a un pubblico che non “gioca” più a comperare tanto per spendere ma rifiuta lo shopping casuale, vuole sapere, scegliere, a cominciare dal chiamare le cose con il loro nome originario, soprattutto in italiano, dove hanno origine creatività, modelli, materiali.


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Il Gazzettino