"Asteriòn", il poema visivo di Montagner agli European Awards

Il regista trevigiano Francesco Montagner
Un toro instancabile corre sotto un sole cocente misurando con lo sguardo l’arena vuota che lo imprigiona. Un uomo altrettanto instancabile, un tassidermista, misura il...

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Un toro instancabile corre sotto un sole cocente misurando con lo sguardo l’arena vuota che lo imprigiona. Un uomo altrettanto instancabile, un tassidermista, misura il corpo dell’animale, lo studia, lo lavora, lo disseziona, come se la carne nascondesse dentro di sè un mistero. Francesco Montagner non ha paura di osare: il suo corto “Asteriòn” racchiude una riflessione estremamente potente e non scontata su vita e morte, sulla mascolinità tossica e il suo mito, e anche sul rapporto tra uomo e animale. Un’opera raffinata e inaspettata, completamente muta ma al tempo stesso ricca di suoni, con cui il giovane regista trevigiano (classe 1989), Pardo d’oro a Locarno con “Brotherhood” nel 2021 e Leone a “Venezia Classici” nel 2014 con “Animata Resistenza”, è finalista agli European Film Awards insieme all’amico feltrino Francesco Sossai (“Il compleanno di Enrico”), unici due italiani in gara, nella sezione dei corti, agli Oscar europei di dicembre a Berlino.

Un bel traguardo per due registi indipendenti.

«Siamo tutti molto orgogliosi, una soddisfazione enorme e anche una grande sorpresa: “Asteriòn” è un lavoro molto particolare, astratto».

Una sorta di “ibrido”.

«Sì, tecnicamente è finzione, ma è stato girato con lo stile del documentario, in pellicola e con una camera particolare, la Bolex, che è a manovella: ogni 20 secondi di riprese la devi ricaricare. E’ stato bello, perchè era tutto analogico e molto artigianale. Il progetto ha avuto il sostegno del Fondo per il cinema sperimentale ceco: in Italia non avrei mai potuto farlo».

Tutto nasce da Borges, dal racconto “La casa di Asterione”.

«Sono partito da lì: non parlo della corrida, ma del mito mediterraneo del toro, del rapporto uomo-animale, e in particolare dell’uomo e della sua necessità di rubare l’anima più selvaggia dell’animale. Cosa impossibile. Alla fine è una trasformazione incompiuta».

Di qui la tassidermia.

«Mi piaceva l’idea di prendere una cosa morta dandole forma viva. In realtà, però, resta morta, anzi più morta di prima».

Come ha trovato il maestro tassidermista?

«Grazie a rete di contatti: Josè Luis Martin Moroè uno dei maggiori tassidermisti in Spagna, e grande artigiano. Ha sposato il progetto, gli piaceva l’idea di creare la testa del toro. C’è stata una lunga preparazione per trovare l’animale morto, per avere la possibilità di aprirlo, di congelare la carne, di preservarla».

Il momento più duro per lei?

«Quando si toglie la pelle dell’animale e vedi la carcassa: questa scarnificazione... un processo che mi ha toccato nelle viscere. Ma volevo renderlo in forma poetica. L’idea era di connettersi con questa forma di “amore” particolare, quasi sensuale, verso la carne, verso la fisicità del toro».

Obiettivo?

«Volevo mostrare che i due destini, di uomo e animale, si assomigliano: come il toro è intrappolato nella sua natura e ne muore, così l’uomo, pur tentando di liberarsi, è bloccato nella sua natura taurina. È un duplice destino fatalista. Nessuno vince».

Il silenzio del film lo ribadisce ancora di più.

«Cercavo una forma di solennità: nessuno dei suoni originari di quel mondo avrebbe dato quel tipo di significato che cercavo. Nel momento in cui si toglie il suono, tutto diventa astratto. Il film per me è una poesia astratta: dopo “Brotherhood”, che mi ha richiesto un sacco di costrizione narrativa, volevo un po’ liberarmi».

Sicuramente “Asteriòn” chiede un’altra forma di ascolto.

«Infatti, il pubblico, dopo il primo disorientamento, ne resta colpito. Perché le immagini evocative portano con sé una forte carica di energia. Volevo creare un film che arrivasse dentro senza spiegare nulla».

Nuovi progetti?

«Sto pensando a tanti nuovi film, ma per mantenermi devo continuare con le mie tre docenze, a Cuba, a Praga e in Canton Ticino, che mi tengono molto occupato. Poi sono due anni che vado in giro per i festival e si produce di meno. Se ci fosse anche da noi “l’intermittenza artistica” come in Francia, sarebbe più facile. Forse dovrei trasferirmi lì, ci sto pensando. Anche perché io faccio un cinema “estero”, non inquadrabile. Ecco, le mie note sono diverse, e non suonano molto qui».

 

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Il Gazzettino