Estate '85, primi amori e la loro illusione The shift, memoria di Elephant

Estate '85, primi amori e la loro illusione The shift, memoria di Elephant
Si ha sempre la sensazione di ritenere un regista poliedrico come François Ozon più frivolo di quanto meriti,...

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Si ha sempre la sensazione di ritenere un regista poliedrico come François Ozon più frivolo di quanto meriti, non fosse altro per il coraggio di rimettersi sempre in discussione, affrontando storie, tematiche e stili diversi, che non è mai semplice. Il suo cinema spesso trattiene lo spettatore sulla superficie, perché la profondità è nelle pieghe del racconto, ma richiede attenzione e disponibilità. Va insomma scovata. Così è abbastanza certo che anche questo “Estate ‘85”, ennesimo racconto sulla vaghezza e sulla fragilità di ogni adolescenza, verrà sminuito in una cornice da “tempo delle mele” in versione gay, anziché scoprirlo così intessuto di percorsi paralleli, dove la spensieratezza lascia spazio a un rapporto (familiare e affettivo) tutt’altro che semplice, a cominciare dai giovani per finire alle persone mature, dall’ennesima prova sciroccata di Valeria Bruni Tedeschi, qui in chiave di madre invadente e incapace di leggere la realtà, fino alle figure mancanti, spesso rappresentate dai padri. Alexis e David sono due ragazzi. Si incontrano in modo traumatico. Il primo rischia di annegare, il secondo lo salva. Il primo è di origini umili, un po’ introverso, semplice e sincero; l’altro ha una realtà borghese alle spalle, è irruento e estroverso in modo incontrollato, poco sentimentale. Ad attrarsi fisicamente ci mettono poco. Sulle note di “Sailing” di Rod Stewart costruiscono un castello in aria (Alexis) e un carnale passatempo (David), allontanando progressivamente le loro attese, in un’intesa che si sbriciola, non solo per l’ingresso, altrettanto casuale di una ragazza, verso la quale David ripone un ulteriore sforzo per allontanare la propria noia, finendo con il deludere Alexis. Sono anni difficili per l’amore frettoloso e divorato dall’estate, specie davanti al mare. Da qualche anno l’Aids conta le sue vittime, ma le tragedie possono arrivare anche in altri modi. Ozon spiega ancora una volta come il creare alimenti automaticamente anche la sua distruzione. Lo fa mostrando, in modo forse fin troppo pudico (si pensi al cinema di Sébastien Lifshitz, dove la conoscenza passa attraverso il linguaggio esplicito dei corpi, nella loro irrequietezza e desiderio), come la giovinezza sia il terreno più insidioso, ma anche più stimolante, per la consapevolezza di sé e degli altri. Tutto è puro istante, la costruzione (di un amore, di una vita) non può accontentarsi del solo istinto, nella sua dolente frammentarietà. Ozon scava nell’illusione, dove la realtà e la finzione (i grandi temi, in definitiva, del suo cinema) si osteggiano più che condividersi. Liberamente tratto da un romanzo di Adam Chambers, raccontato, col suo carico estetico vintage, attraverso il rimorso e la memoria del tempo perduto (la storia che finalmente Alexis scriverà) e la freschezza dei corpi dei due protagonisti, “Estate ‘85” è tutt’altro che un canto spensierato, che porta a danzare su una spiaggia o davanti alla tomba dell’amato, in attesa che il futuro riprenda il suo corso. Voto: 7.

MEMORIA DI ELEPHANT - L’ottimo piano sequenza iniziale ci porta dritti dentro la tragedia. Siamo all’interno di un autobus pieno di ragazzi che stanno raggiungendo la scuola, che sarà teatro di una carneficina. A compierla due giovani che provengono dal quartiere di Molenbeek, covo jihadista della regione brussellese, negli ultimi anni tristemente noto: uno si fa successivamente esplodere, l’altro (Eden) rimane a terra ferito, finendo per essere scambiato per una delle vittime che si possono ancora salvare. Caricato su un’ambulanza, tiene in ostaggio autista e infermiera. “The shift”, l’esordio di Alessandro Tonda, qui in una produzione italo-belga, si disfa velocemente dei richiami a “Elephant” e “Bowling a Columbine”, buttandosi tra le strade della capitale, mentre la caccia all’attentatore sparpaglia il panico. Un’opera prima, a suo modo sorprendente, che mostra già una solida abilità nella gestione dei tempi e degli spazi dedicati al thriller, con qualche digressione più incerta (la parte dedicata ai genitori dell’attentatore). Cast adeguato, dove spicca Adamo Dionisi, noto per la sua presenza in “Suburra” e “Dogman”, e Clotilde Hesme, che alterna fragilità e paura a una consapevolezza che in qualche modo bisogna uscirne vivi. Voto: 6,5.

IL PICCIONE ORA PARLA - Almeno Roy Andersson resta una garanzia col suo cinema concettuale, grottesco e surreale, molto nordico, raggelato in siparietti di tristezza comica. Il problema è che da lì non se ne esce mai e non solo per l’estetica. Cristallizzando ancora una volta la realtà, dove le figure umane si adeguano allo status inerte delle riprese (quasi sempre a inquadratura fissa), con "Sulla infinitezza" stavolta il regista svedese affronta in modo ancora più radicale ed essenziale (ma anche più debole) il senso della vita, nella sfida tra il rapporto dell’uomo con l’infinito e quindi anche con Dio o la sua assenza, e la finitezza della cose umane, dai piccoli grandi rancori tra le persone, alla rottura dell’auto che ti lascia a piedi. Disossando e slegando il racconto, senza ovviamente catturare mai una trama, Andersson conferma il suo sguardo attonito, caustico e irriverente, dove il punto di vista resta quello del piccione del suo film precedente, vincitore del Leone d’oro nel 2014, che stavolta forse si è messo a parlare (di chi è la voce di donna, che spiega ogni volta ciò che vede nella scena?). Il tutto resta apprezzabile, ma alla lunga mostra anche un’estetica a suo modo consumata, perché troppo ripetitiva, dal grigio cenere diffuso come fotografia all’essenzialità di cogliere più gli attimi della vita di ciascun personaggio, che non la stessa nel suo complesso. Va da sé che durata di appena 76’ resta un atout formidabile, al quale spetta immensa gratitudine. Voto: 6.

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Il Gazzettino