Elle: perfida black comedy, enorme Huppert La cura dal benessere: l'estetica della copia

Elle: perfida black comedy, enorme Huppert La cura dal benessere: l'estetica della copia
Aggredita e violentata in casa, Michèle, capo di una produzione di videogiochi, si comporta in modo anomalo: non va...

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Aggredita e violentata in casa, Michèle, capo di una produzione di videogiochi, si comporta in modo anomalo: non va alla polizia, ne parla con gelido distacco agli amici più intimi cercando di superare il trauma, anche se lo stupratore, che lei tenta di individuare nella cerchia delle conoscenze, inizia a perseguitarla.
Il prodigioso ritorno dell’olandese Paul Verhoeven a 10 anni da “Black book”, se si esclude la parentesi del mediometraggio “Steekspel” (2012), pone il corpo di Isabelle Huppert, più che mai strepitosa e si direbbe qui “necessaria” come nessun’altra attrice, nel mezzo di una sarabanda di personaggi e situazioni deliranti, di sarcasmo tragicomico. Personaggio eccentrico, Michèle ha un’anziana madre altrettanto singolare, che annuncia, come la più spregiudicata milf, di voler sposare al più presto il suo toy boy; e un padre, che anni prima aveva compiuto una spaventosa strage, condannato all’ergastolo. Ha un ex marito al quale sfascia con noncuranza il paraurti dell’auto; e un figlio, che si comporta come un idiota: non riesce a mantenersi, si innamora di ragazze sbagliate e diventa “padre” di un bambino di colore (esilarante la scena della scoperta); e dei vicini di casa apparentemente innocui: lui sembra avere un’attrazione per Michèle, mentre la moglie è tutta casa e chiesa.
Verhoeven forse non è mai stato così feroce. Ritrova l’indole dissacrante e spregiudicata, quella che ci ha fatto amare i suoi “Spetters”, “Il quarto uomo” e “Basic instinct”, impasta “la carne e il sangue” con beffarda lucidità, spoglia la borghesia di ogni alibi comportamentale, la inchioda al proprio carosello di perversioni e ipocrisie tra desiderio e violenza, fervente cattolica e al tempo stesso attratta dal sadomasochismo degli affetti e degli appetiti erotici.
Al centro si muove "Elle", “Lei” come da titolo: è una donna in carriera, dal passato fanciullesco traumatico (la strage del padre), apparentemente sicurissima di sé, dominante negli affetti e nel lavoro, cinica verso tutto e tutti, alla fine anche verso il suo aggressore, con il quale poi ingaggia l’ennesima liaison esplosiva. Un personaggio imperdibile per Verhoeven, stella polare di un ingranaggio narrativo spiazzante e spietatamente crudele nel descrivere le relazioni tra i personaggi. Non si salva nessuno: emerge solo la spaventosa mostruosità di una società borghese, che fonda le sue certezze su regole sistematicamente tradite da tutti senza rimorsi.
Non cercate qui sensi di colpa. Tratto dal romanzo “Oh…” di Philippe Dijan il film, anche agli occhi magnetici del gatto di Michèle testimone dello stupro, è al contrario un’azzardata, perfida black-comedy sempre sul crinale dello svaccamento. Geniale capolavoro.
Stelle: 5


LA CURA DAL BENESSERE - Un’importante compagnia finanziaria invia un giovane rampante in una Spa sulle Alpi Svizzere, per riportare negli Usa un alto dirigente che da lì non ha fatto più ritorno. Ma al suo arrivo il giovane ha un incidente d’auto, restando così intrappolato nella casa di cura per anziani.

La prima parte di “La cura dal benessere” è un glaciale, geometrico thriller succube della propria estetica, la seconda sviluppa i toni misteriosi in un crescendo barocco horror, dove faticosamente si ricostruisce una storia, tutt'altro che originalissima, di nobili vissuti secoli prima, accusati di incesto. Gore Verbinski purtroppo non ha nemmeno l’insopportabile crudeltà del Lanthimos di “The lobster”, né la forza politica di denunciare il mondo stritolato dal denaro, ma si accontenta di dilatare l’angoscia (due ore e mezza) in un armamentario che scopiazza di tutto dalle canzoncine care ad Argento alla salita al castello di Herzog, dal corridoio di Fuller allo Shutter Island di Scorsese, da un tocco dal maratoneta di Schlensinger a Kubick q.b e via elencando. Ne esce un qualcosa che avrebbe anche un suo fascino, ma che eccede troppo in tutto, smisurato e incontrollato, tra anguille feroci come piranha, denti che cadono, vecchi corpi rinsecchiti, riti massonici, la faccia cadaverica di Dane deHaan (che sembra la copia smunta di DiCaprio) e una Svizzera ostile anche nei villaggi. Verbinski, nonostante il più riuscito precedente remake di “The ring”, è sicuramente preferibile quando divertiva con Jack Sparrow, almeno all'inizio. Meno ambizione, più spasso.
Stelle: 2
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Il Gazzettino