Ascanio Celestini riapre il Museo Pasolini: quanti "vuoti" nell'Italia del Novecento

Ascanio Celestini torna sul palco con il nuovo lavoro, "Museo Pasolini"
Una porta al centro della scena che non si apre mai, come una sorta di pannello tra ciò che sappiamo e ciò che non possiamo o non vogliamo sapere. Un po’ come...

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Una porta al centro della scena che non si apre mai, come una sorta di pannello tra ciò che sappiamo e ciò che non possiamo o non vogliamo sapere. Un po’ come quelle aree grigie lasciate dai quadri rimossi dalle pareti, assenze che ognuno può riempire immaginando cosa ci sia stato prima o cosa potrebbe starci dopo. Ascanio Celestini si pone lì, in quel vuoto pieno di senso, implacabile eppure così meravigliosamente poetico nella sua narrazione: il suo nuovo lavoro, “Museo Pasolini”, passato all’Mpx di Padova (myarteven.it), racconta un’Italia che forse non vorremmo vedere, ma che ci riguarda ancora molto da vicino.

LO SGUARDO

Usando l’opera e il vissuto del poeta come specchio di rifrazione, Celestini si addentra nella storia del nostro paese, dalla fine della tirannia fascista fino alla metà degli anni ‘70, immaginando così un “Museo” fatto di parole, storie, ricordi, paure sogni e idee «che non si possono mettere in una teca» ma che andrebbero osservati nel modo migliore. Dopo tutto il “museo”, che per statuto si occupa di raccolta reperti, catalogazione, conservazione ed esposizione, è il luogo più adatto ad accogliere una ricerca come questa, che è ben più di un omaggio a Pasolini, simbolo conteso di un’Italia che ha sempre faticato a fare i conti con se stessa e i propri fantasmi. Una sorta di “figlio illustre” abbandonato quando era in vita e celebrato come un eroe dopo la morte.

LA  STORIA

Partendo dai dati biografici - Pasolini «nato nel 1922, anno zero dell’era fascista» -, Celestini si muove nella Storia per quasi due ore e mezzo, come in un flusso di coscienza: dal padre Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, alla madre friulana di Casarsa, il fratello Giovanni, partigiano trucidato a Porzus da altri partigiani «col fazzoletto rosso», e poi l’amore per la pittura e la tesi che non riuscì a dare sull’arte, optando poi per un lavoro su Pascoli, il no al partito comunista che faticava ad accettare un “outsider” così scomodo e diverso, e infine la vita “scandalosa”, l’assassinio, la politica di quel tempo con i giochi di Palazzo.

Nel mezzo, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese abortito «perché il vero colpo di stato è quello che non c’è e dove il cittadino deve vivere nel terrore, con la pistola puntata alla tempia», l’innocenza “messa nel cassetto” dal comunismo italiano dopo la repressione sovietica a Budapest. E quei terribili «io so, so i nomi dei responsabili, ma non ho le prove» che ci riguardano ancora da vicino. Fino ai macabri dettagli del verbale sulla morte del poeta, con la frase ossessivamente ripetuta da un poliziotto sorpreso dalla normalità della biancheria trovata addosso al cadavere. «Pasolini muore nel 1975, anno 53 dell’era fascista»: Celestini scava e narra, osserva e ricorda, ipnotico e inesorabile, scrutando quel vuoto lasciato dal quadro alla parete che si presta ad ogni manipolazione, ma che può anche diventare luogo della poesia, dell’immaginazione, del possibile, del teatro che spiazza e scuote mettendo in discussione la nostra visione del mondo. Da non perdere. 

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Il Gazzettino