Cate, amore e podio: Tár non è stonato Shyamalan è una certezza, Zeller no

Cate, amore e podio: Tár non è stonato Shyamalan è una certezza, Zeller no
A Venezia, all’ultima Mostra, Cate Blanchett ha vinto la Coppa Volpi per questo film: una scelta che se rispondeva...

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A Venezia, all’ultima Mostra, Cate Blanchett ha vinto la Coppa Volpi per questo film: una scelta che se rispondeva all’oggettiva qualità dell’interpretazione, poneva una questione non secondaria: vale la pena di assegnare a un’attrice già lungamente premiata un ulteriore riconoscimento e non piuttosto dirigerlo verso qualche performance magari meno scintillante di qualche collega meno conosciuta o meno apprezzata fin qui? La domanda, che non ha una risposta certa, descrive quelle opportunità che spesso le giurie si lasciano scappare, anche se è chiaro che di chi sta sullo schermo praticamente dall’inizio alla fine del film, è difficile non tenerne conto. Va da sé che non sta tutta qui la forza di “Tár” del regista statunitense Todd Field, più noto generalmente come attore e fin qui regista per sole due volte. Un film concentrato unicamente sulla figura di Lydia Tár (Cate Blanchett, appunto), direttrice di una importante orchestra tedesca e mondiale come i Berliner, una delle poche donne sul podio in un mondo dominato dai maschi, per di più lesbica, quindi doppiamente attaccabile. Indubbiamente Tár è una donna contemporanea: è sposata con la primo violino della medesima orchestra, ha adottato una figlia di origine siriana, ma in realtà è un personaggio controverso e tutt’altro che docile, attraversando il film con azioni non condivisibili, come l’aggressione durante l’esibizione della Quinta di Mahler al direttore che l’ha appena sostituita, o quando finge di essere stata aggredita, fino a rendersi responsabile del suicidio di una sua collaboratrice. Field, che non gira film da 16 anni dai tempi “Little children”, firma la sua terza regia con un’opera sul potere, sulla capacità di chi è più forte, anche intellettualmente e qui anche simbolicamente (lei sta sul podio e la bacchetta è la sua arma di comando), capace di dominare gli eventi e le persone, finendo tuttavia schiacciata dalla sua stessa ossessione di supremazia, per una qualsiasi mancanza di equilibrio e umiltà, mostrando in realtà una fragilità perfino paradossale. Field tratta la lunga prima parte come una composizione in più movimenti sinfonici, tra l’austera messa in scena di interviste e fatti pubblici, e la sofferta quotidianità affettiva, dilungandosi forse a volte un po’ noiosamente sugli aspetti musicali, ma dando corpo agli intarsi continui con una regia significativamente geometrica. È un peccato quindi che la compattezza delle prime due ore si perda un po’ nella parte finale, quando il rigore formale e la narrazione emotivamente ansiosa lasciano al contrario posto a un racconto corrivo. Lontana dagli spazi e dal tempo amico, crollato il suo mito, è come se Tár, al pari del film, si perdesse in un oblio imperfetto, che non è soltanto generato per evidente controcanto. Voto: 6,5.

CHI È? - Eric e Andrew, coppia gay sposata, hanno una piccola figlia e da poco hanno deciso di affittare una casa nel bosco, ma un giorno quattro aggressive persone, munite di armi rudimentali, “bussano alla porta”, ponendo loro una scelta devastante. Shyamalan continua la sua esplorazione con il mistero, il divino e la fede in una narrazione concentrata quasi esclusivamente sul credere: a ciò che gli inattesi ospiti dicono, alle immagini che si vedono in televisione, a ciò che siamo quotidianamente a scegliere. Tra echi di “Signs”, “E venne il giorno” e “The village”, il regista indiano-statunitense segna uno dei suoi punti più alti. Peccato manchi un’ambiguità finale, alla quale Shyamalan non è stato comunque mai interessato. Voto: 7.

PADRE E FIGLI - Purtroppo l’atteso film di Florian Zeller, dopo il buon successo di pubblico e critica di “The father”, è una inaspettata delusione. La vita dell’adolescente Nicholas procede apparentemente tranquilla. Vive con la madre separata (Laura Dern), mentre il padre (Hugh Jackman), ora avviato a carriera politica, ha una nuova compagna (Vanessa Kirby), unione dalla quale è nato da poco un altro bimbo. Ma la scoperta che Nicholas, incapace di accettare il divorzio dei suoi genitori, non va a scuola da mesi, non ha amici e soprattutto ha mire autolesioniste, rompe in modo drammatico la tranquillità dei vati legami. Zeller, autore anche della sceneggiatura con Christopher Hampton, non crea con “The son”, anche da un punto di vista formale, una frattura esistenziale e spaziale tra la realtà e la sua visione distorta, come nel film precedente (lì il padre era affetto da Alzheimer), ma si limita a una progressione negativa degli eventi, facilmente ipotizzabili da una sceneggiatura che lascia fin troppi indizi. Ne esce un melodramma familiare, dall’andamento piatto, con un carico lacrimale ben calcolato e nel finale anche un po’ ricattatorio, dove il cast sembra l’unico valore di rilievo (c’è anche un cameo di Anthony Hopkins, il precedente “father”). Voto: 5.

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Il Gazzettino