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Il lutto come motore di una storia. La morte di T’Challa-Black Panther e del suo interprete Chadwich Boseman come scintilla di un racconto che vuole elaborare il concetto di perdita, superando i confini della finzione. “Black Panther: Wakanda forever” non ci gira attorno, e lo dichiara sin dall’inizio: la morte del re, del fratello, del figlio, dell’amico. E la perdita di un simbolo, quello dell’eroe incarnato da Boseman, quel “Black Panther” diventato un successo del 2018, prima grande produzione afro-americana dei cinemcomic Marvel, così strettamente legata all’attualità, al movimento “Black lives matter” e al racconto dell’America di oggi.
IL NUOVO CAPITOLO
Il secondo capitolo mantiene la stessa maestosità visiva e sonora (anche nella durata di quasi 3 ore), restando forte e riconoscibile in termini di regia e stile, scegliendo però di usare il trauma della morte come spunto per un passaggio di consegne, più che di una sostituzione, guardando così al futuro. Ecco allora che la riflessione sulla morte e sull’elaborazione del lutto diventano punto di osservazione per tracciare la sfera emotiva dei personaggi, per lo più femminili, a partire dalla regina Ramonda (l’elegantissima Angela Bassett dagli splendidi bicipiti) e dalla principessa Shuri (Letitia Wright), scienziata geniale e talentuosa che si colpevolizza per non aver saputo salvare il fratello. Ed è proprio sulle sue spalle ossute che il regista Ryan Coogler pone la coralità del racconto, seguendo il suo percorso di crescita e di maturazione, ma soprattutto di consapevolezza e accettazione del dolore. Trascurando le solite gigionerie alla Marvel, “Wakanda forever” trasforma le donne in colonna portante del film, eroine complesse e sfaccettate capaci di piangere ma anche di governare, di amare e di soffrire, di stare dalla parte degli indifesi e di proteggere il proprio mondo e le sue risorse naturali dalle “avidità” degli occidentali colonizzatori.
BIGGER IS BETTER
Coogler, che per il suo secondo capitolo ha adottato la massima “bigger is better”, in due ore e quaranta intreccia due piani narrativi: quello dei contrasti socio-politici-militari, tra battaglie e incursioni delle invincibili creature marine e qualche inseguimento con la Cia (quasi per lasciare spazio agli unici bianchi del film, Martin Freeman e Julia Louis Deyfuss), e quello più intimo e psicologico su cui far convergere i “valori” più alti. Peccato che tra un incipit emozionante, un finale battagliero come vuole la tradizione Marvel e un post-credit da lacrimuccia, il racconto si banalizzi perdendo di vista temi più interessanti della storia, come l’umiliazione della cultura maya e azteca di cui Namor è portavoce, la rabbia cieca che consuma gli antagonisti, la riflessione su cosa siano potere e controllo, il valore dell’appartenenza. Ed è qui, forse, che Black Panther perde la sua scommessa, incapace di osare oltre la solita dicotomia eroe-antieroe-da sconfiggere. E forse, visti i tempi, “Black Panther” avrebbe meritato una “zampata” più feroce.
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