Berlinale 70/8. L'Italia trova meritati sorrisi con Elio e i gemelli-Rasoulof Orso meritato

Berlinale 70/8. L'Italia trova meritati sorrisi con Elio e i gemelli-Rasoulof Orso meritato
C’è l’Italia, tutta l’Italia (due film in Concorso, entrambi premiati), in questo palmares della...

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C’è l’Italia, tutta l’Italia (due film in Concorso, entrambi premiati), in questo palmares della Berlinale edizione 70, senza dimenticare il neo direttore torinese Carlo Chatrian, al suo primo anno appunto qui a Potsdamer Platz: Elio Germano si porta a casa l’Orso d’argento come miglior attore (era presente in tutt’e due i film, ma vince per il ruolo come Ligabue nel film “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti); i due fratellacci Fabio e Damiano D’Innocenzo si devono “accontentare” della sceneggiatura per il loro “Favolacce”: diciamo la verità, abbiamo tutti sperato in qualcosa di più, ma insomma i due gemelli sono figli ormai di Berlino (qui presentarono due anni fa la loro opera prima  - “La terra dell’abbastanza”) e insomma essere comunque premiati al secondo lavoro, solitamente il più difficile, è un grandissimo risultato e ormai un’indicazione precisa sulla loro qualità.
Con quella faccia un po' così, quell’espressione un po’ così che sembrano sempre svegli da poco, stavolta tuttavia addobbati in abiti sufficientemente da gala, nei quali si saranno sentiti probabilmente sacrificati, i due giovani prodigiosi registi, sul palco si sono lasciati andare con pacatezza alla consueta lista di ringraziamenti (a parte un “Mortacci tua”). E quindi: «C’è un po’ di commozione, grazie Berlino, grazie alla famiglia nostra e a quella cinematografica. I bambini del film ci hanno permesso di crescere». E infatti loro due stanno crescendo bene, senza dubbio.


E mentre Elio Germano applaude al loro premio, un attimo dopo è lui a salire sul palco e prendere in mano l’Orso d’argento come miglior interprete maschile. Anche lui emozionato (aveva già vinto un premio simile a Cannes, 10 anni fa, con “La nostra vita” di Daniele Lucchetti), ha ricordato come «il film sia stato faticoso. Dedico questo premio a tutti gli storti, gli sbagliati che vivono nel mondo e ovviamente ad Antonio Ligabue, per la sua grande lezione che ha dato nel credere in quello che si fa. Un giorno spero faranno un film anche su di me».
Poi c’è da dire ovviamente che a vincere è stato il film iraniano “This is no evil” dell’ottimo regista Mohammad Rasoulof, per l’ennesima volta trattenuto in Iran, come capita spesso agli artisti che disturbano il regime (ricordate Jafar Panahi?). C’erano molti motivi che facevano pensare a questo verdetto: la sedia vuota del regista; il tema molto forte sulla pena di morte (l’Iran è tra i Paesi più accaniti sostenitori); il fatto che Berlino è da sempre sensibile ai film politici e civili; il fatto che altri film, anche migliori, avevano comunque elementi che potevano dividere la giuria. Curioso che sia stato l’ultimo film in programma, passato soltanto ieri in tarda mattinata, quando molti cinefili e critici erano già partiti. Ma il film è comunque bello, un po’ diseguale essendo a 4 episodi, dove il primo segmento, il migliore, termina con una scena agghiacciante, ancora più forte perché del tutto inaspettata. Puntuale, prolungata e giusta standing ovation in sala al momento del ritiro dell’Orso d’oro da parte del cast del film.
Condivisibili abbastanza gli altri premi: dal contributo artistico a “Dau”, film estremamente divisivo, per alcuni terribile (anche per chi scrive…), per altri addirittura capolavoro, a Paula Beer come miglior attrice per “Undine” (e spiace ancora una volta che al tedesco Christian Petzold non venga riconosciuto il suo valore); dalla regia al sudcoreano Hong Sansoo per l’ennesima elegante messa in scena (e il gatto, attore straordinario, batte tutti e tutto in questa edizione) al Gran Premio al delicatamente tormentato “Never Rarely Sometimes Always”, sulla struggente storia di un ragazzina costretta ad andare a New York per abortire: peccato solo che il film provenga dal Sundance e insomma non è mai bello premiare a un festival importante come Berlino, un’opera passata altrove; ma la regista Eliza Hittman ha fatto ancora un buon lavoro.

Il primo anno del neo direttore italiano Carlo Chatrian è stato un po’ ondivago e la nuova sezione Encounters rischia di essere quasi un boomerang, ma il rodaggio serve a tutti e il buono non è mancato, anche se la programmazione quasi delirante va assolutamente rivista; la chiusura di alcune sale a Potsdamer Platz e un quartiere che sembra essere oggi in sofferenza, nonostante il tripudio di modernità dalla caduta del Muro a oggi, hanno reso la vita un po’ più complicata a tutti. Ma queste sono altre storie. Importa che l’Italia torni a casa con gli applausi. In questo delicato momento per la nostra immagine, è un giusto e meritato risultato.

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Il Gazzettino