Lo spazio di una tazzina sa contenere tante cose: rito, memoria, routine, affetti, design, innovazione.
E il caffè è un’esemplare unità di misura di quelle rivoluzioni minime e silenziose che riscrivono abitudini, costumi, metrica della quotidianità.
La “cuccumella” è stata per decenni una specie di specchio di un’altra società, ad andamento lento. C’è però un epocale anello di congiunzione tra la “napoletana” e le macchine per l’espresso: la moka, che tuttora resiste nelle case e nel cuore degli italiani. Inventata da Alfonso Bialetti nel 1933, è un monumento di geniale semplicità e praticità, oltre che icona mondiale del design industriale nostrano: quattro componenti, base ottagonale, il sistema a caldaia che sfrutta la pressione del vapore saturo, dimensioni variabili e scandite a numero di tazzine.
Bialetti fu ispirato da un altro lembo di un’Italia che non c’è più: vide la moglie fare il bucato con la “lisciveuse” (da lisciva, in quegli anni un diffuso detersivo economico), una lavatrice d’antan formata da un catino di acqua bollente e da un filtro contenente cenere. Perché non applicare gli stessi principi e la stessa meccanica al caffè? Il risultato fu un capolavoro, simbolo del Made in Italy, tanto da essere nella collezione permanente del Triennale design museum di Milano e del MoMa di New York. L’intuizione di Bialetti è l’avo ben vitale delle macchine semi-automatiche da caffè espresso che popolano sempre più abitazioni e luoghi di lavoro. Anche qui, l’invenzione della moderna macchina è tutta italiana, il brevetto è della metà degli anni ‘30 (il “rubinetto a stantuffo”). Prima nei bar, poi – tra polvere, capsule e cialde – anche nelle case e con dimensioni progressivamente più contenute e funzioni ed efficacia sbalorditivi. Però sempre convivendo pacificamente con la moka, che sa conciliare il vecchio e il nuovo, comodità e cerimoniale. Perché in ogni caso e in tutti i modi – ancora De Filippo – «a tutto rinunzierei, tranne che a questa tazzina di caffè».