Chiusi nella paura non sappiamo più soccorrere gli altri

Martedì 31 Maggio 2016 di Paolo Graldi
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Un amore malato, nutrito da un odio liquido, incolmabile e incontenibile, sorretto dal veleno della gelosia, cieca e stupida consigliera. 

Un amore avvolto dall’intuizione di Ovidio: «Né con me, né senza di me». È in questo impasto, in questo intruglio di sentimenti, che matura, prende forma e si scatena in una deflagrazione di ferocia inaudita il progetto di uccidere Sara Di Pietrantonio.

Un classico, si dovrebbe dire amaramente. Perché le cronache di questi anni forniscono intere sequenze di morti annunciate, di vittime consapevoli e tuttavia impotenti, di sanguinosi assalti innescati dall’incapacità di accettare un fallimento sentimentale, una rottura definitiva. Qualche volta la tragedia si consuma in un annichilimento totale: lui la ammazza e poi si uccide. 

La vita inghiottita dal buio di un tunnel senza fine, che non sia una fine nella tragedia. La cultura del possesso che pretende la soggezione e la sottomissione dell’altra (quasi mai dell’altro) è dura a morire: non c’è ancora l’argine delle leggi, della prevenzione, delle accortezze per rispondere alle minacce che seguono un copione in crescendo, fino all’esplosione finale. 

Mille e mille gli interrogativi del dopo e fra tutti quelli che riguardano i segni premonitori, che sempre ci sono ma che spesso vengono trascurati nella speranza, sempre vana, che subentri una ragionevole rassegnazione all’irreparabile rottura. Così oggi la morte di Sara, atroce e orribile, ci restituisce qualcosa di già visto, già vissuto, inutilmente. 
Ma questa volta c’è qualcosa di più e di peggio che ci chiama a riflettere, a chinare il capo in segno di colpa collettiva. Con parole lineari, semplici e ferme il pubblico ministero Maria Monteleone, con davanti i fogli della confessione di Vincenzo Paduano, l’ex fidanzato omicida con premeditazione e stalking, ha espresso due concetti che vanno dritti al cuore della questione, perché interpellano - e giudicano - il chi siamo tra noi, noi della società civile, noi che inorridiamo di fronte alla visione di una ragazza dall’avvenire sfolgorante che viene inseguita, catturata, cosparsa di alcol e bruciata viva.

Dice il magistrato che almeno due persone hanno incrociato Sara mentre fuggiva, inseguita dal suo aguzzino, forse quand’era già avvolta dalle fiamme agli abiti leggeri, dunque ancora in vita, dunque con ancora addosso la speranza di uscire da quell’inferno improvviso e definitivo. 

Due, tre persone, dicono le indagini, l’hanno vista e l’hanno lasciata là insieme a uno sguardo di distacco, che forse nasconde la paura o forse l’indifferenza. Meglio non immischiarsi, se litigano quei due, se si rincorrono, se si picchiano, se volano grida e botte, se incombe su quella scena con chiarezza la violenza più brutale, bene, sono affari loro, se la sono cercata, se la sbrighino. 

Paura o egoismo poco importa se il risultato è quello di voltarsi dall’altra parte, di non trovare neppure la forza, e ce ne vorrebbe poca, di chiamare la polizia, di accendere quel telefonino che si tiene sempre in mano per comporre un “112”, chiamare aiuto, dare l’allarme. 

No, niente di tutto ciò è successo l’altra notte a via della Magliana mentre Sara non riusciva da sola a trovare una via di fuga, un riparo, un aiuto, un soccorso. Ha chiesto aiuto Sara mentre le fiamme bruciavano il suo ultimo respiro: l’hanno vista e l’hanno lasciata spegnersi. Paura, vigliaccheria, indifferenza. 

Qualcuno di quei passanti in fuga dovrebbe ricoprirsi di vergogna: ma quanti sono i passanti che si sarebbero comportati allo stesso modo? Suonano come una scudisciata in piena faccia le parole della dottoressa Monteleone: «Voglio rivolgere un invito a chi si imbatte in una donna che chiede aiuto, anche di notte, a non restare indifferenti e voltarsi dall’altra parte e a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Se questo fosse accaduto Sara sarebbe ancora viva».

E ancora, di più: «Speriamo che questa morte non sia inutile». Di qui l’invito alle ragazze a denunciare le minacce, a confidarsi con gli amici e i familiari. Se una storia finita non accetta la realtà e s’incammina verso l’odio liquido che diviene totalizzante si deve avvertire l’immenso pericolo ch’essa racchiude e si deve trovare la forza di rispondere. 
Ma rispondere non è facile. Anzi è difficile assai. Perché anche le denunce, le intimazioni della polizia, il richiamo alla correttezza poco possono contro la determinazione dell’annientamento. E infatti questi assassini quasi mai si pentono, si ravvedono, realizzano la portata delle atrocità commesse, spesso anzi ne sono fieri e se ne vantano perché quel sangue versato era divenuta la loro unica ragione di vita. 

Ecco che, come dice Elena Improta, candidata al Campidoglio, figlia di Umberto, poliziotto d’alto rango, sono importanti i centri di prevenzione, l’applicazione del trattato di Istanbul, il ruolo del Telefono Rosa, una voce attenta ai segnali di tragedia immanente. Perché c’è sempre un “prima”, qualcosa che precede l’atto finale, che va colto e reciso. Spezzare la follia del «né con me, né senza di me» significa saper illuminare il buio di una ragione che si spegne nell’odio liquido, quel genere di rancore che invade tutto per inghiottirlo annegandolo. 

Mette i brividi sapere adesso che Sara aveva capito e aveva cercato di scappare da quella trappola mortale. Sulla strada della fuga ha incontrato la nostra indifferenza che l’ha ricoperta con un lenzuolo bianco per non vederla neppure dopo. Una magnifica vita ridotta a un tizzone nero.
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