I ribelli Pd: non restiamo a ogni costo

Mercoledì 14 Dicembre 2016 di Nino Bertoloni Meli
I ribelli Pd: non restiamo a ogni costo

ROMA Minoranza Pd sul piede di guerra. Ora parlano apertamente di andarsene dal partito. A tarda sera Roberto Speranza, molto incattivito da quando è assurto al ruolo di anti-Renzi, va in tv e annuncia: «Io sto nel Pd ma non a tutti i costi, se diventa il Pdr (partito di Renzi) non ci sto». Un altro bersaniano da combattimento, Nico Stumpo, ha spiegato come secondo lui, e secondo statuto, non si può celebrare alcun congresso prima di sei mesi, almeno. Il tutto accompagnato da un atteggiamento assai tiepido, per non dire ostile, della minoranza dem sul nuovo governo Gentiloni, condito da avvertimenti del tipo «voteremo solo i provvedimenti che ci convincono», manco fosse un semplice governo amico. «Bersani e i suoi non li capisco: se votano contro, la maggioranza non c'è più, il governo va sotto e quindi si va subito al voto, che loro dicono di non volere», chiosa Angelo Rughetti, renziano, sottosegretario uscente in odore di riconferma.

IL CLIMA
Ma se a tutto si aggiunge che il clima generale è di ritorno al proporzionale, l'ipotesi di dar vita a un partitino alla sinistra del Pd, una Linke in salsa italiana, con buone prospettive di eleggere decine di deputati e senatori, verrebbe favorita se non incentivata. Sul tema Ettore Rosato, il capogruppo alla Camera, esterna il pressing del Pd per una nuova legge elettorale: «Nessuno pensi di usare la legge elettorale per allungare i tempi, o si fa adesso e mai più, occorre lealtà». In vista dell'assemblea di domenica, la minoranza affila le armi. All'appuntamento intende arrivarci con una doppia tattica a tenaglia: agitando e chiedendo a gran voce le dimissioni da segretario di Renzi e, secondo, chiedendo un congresso non gestito da Matteo ormai dimissionario. In proposito si è fatto sentire anche Pier Luigi Bersani, che ha riproposto la sua tesi di far eleggere il segretario solo dagli iscritti, mentre con le primarie soltanto il candidato premier. Pressato dai giornalisti, l'ex segretario si è spinto a indicare i nomi che ha in testa: Speranza per la segreteria e Letta come candidato per palazzo Chigi.

All'Ergife, domenica, si attende una battaglia apparentemente procedurale. La richiesta di dimissioni da segretario verrà fatta secundum statuto, che vuole si possa andare a congresso anticipato solo con il segretario dimissionario. «Renzi ha perso, ha sbagliato, e se ora insiste nella sua linea di scontro, come già si intravede, o nel riproporre la tesi che il 40 per cento di Sì al referendum sono tutti del Pd, allora andremo di nuovo a sbattere», spiega Davide Zoggia, altro colonnello bersaniano, il qualche fa anche capire che i numeri in assemblea potrebbero cambiare, «non è come in direzione dove Renzi ha una maggioranza schiacciante».

L'OBIETTIVO
L'obiettivo è impedire che sia Renzi a gestire il congresso, «ma la minoranza sa bene che se lui anche si dimettesse, e non si elegge un altro segretario, allora il congresso lo gestisce il segretario dimissionario», ribattono dalla maggioranza. Già, la maggioranza del Pd: come ci arriva all'assemblea? Ci sono diverse scuole di pensiero. La più accreditata riferisce che il segretario non intende essere uscente, ma solo rientrante, nel senso che, per dirla con uno della cerchia ristretta, «col cavolo che si presenta dimissionario». Un altro fedelissimo spiega scandendo bene le parole: «Se Matteo fa il congresso e lo vince, rimane segretario per quattro anni comunque vadano le cose, ma se partecipa solo alle primarie per palazzo Chigi, al governo può andarci o non andarci, ma se non ci va poi non è detto che vinca il congresso, chiaro?».

Ci sono poi gli inviti alla prudenza del cosiddetto correntone di maggioranza, quello di Franceschini, Orlando e Orfini, che suggeriscono al leader di evitare di andare a ulteriori contrasti, «se il congresso anticipato dev'essere l'occasione di altre spaccature, lacerazioni, contrasti, lasciamo perdere, si faccia ma con calma, senza fretta».