La sede delle Agenzie/Autoescludersi dalla corsa Ue: un grave danno alla Capitale

Mercoledì 2 Agosto 2017 di Mario Ajello
Marguerite Yourcenar, nelle Memorie di Adriano, fa dire all’imperatore: «Quando visitavo le città antiche ormai morte, mi ripromettevo di evitare a Roma il destino pietrificato di Tebe». Ma peggio della pietrificazione c’è l’auto-cancellazione dalla carta geografica di quella che è sempre stata una grande Capitale. Leggendo la lista delle 23 città europee che si candidano a ospitare due importanti agenzie in via di trasloco dalla Gran Bretagna - l’Ema che si occupa dei farmaci e l’Eba che vigila sulle banche - colpisce e stordisce l’insostenibile assenza di Roma. Che ha rinunciato clamorosamente a proporsi per una o per l’altra o (come Dublino, Vienna, Varsavia) per entrambe le importanti partite in corso. 

L’agenzia del farmaco va bene per Malta, o per Lille, o per Porto, o per Zagabria, o per Bratislava, o per Atene, mentre la nostra Capitale crede di non avere i titoli e le capacità per ospitarla. E che cos’hanno, più di Roma, Praga o Lussemburgo, che al contrario di noi si sono fatte avanti per diventare le città di residenza dell’Eba sfruttando una chance che quaggiù non si è voluta vedere e non si è stati in grado di capire? L’auto-cancellazione dell’Urbe da questa contesa, in cui si misurano le potenzialità che ogni metropoli attribuisce a se stessa e il rango in cui ci si pone, è il frutto di una sindrome della rinuncia ormai diffusa in questa stagione. E che arreca a Roma un danno profondo. Questo è l’ennesimo capitolo della patologia in atto.

Le istituzioni, a cominciare da chi governa la città, ossia dal Campidoglio, avrebbero dovuto cogliere l’occasione. Organizzare la candidatura per l’agenzia del farmaco, facendosi forza anche del fatto che abbiamo un distretto industriale in questo campo (per esempio a Pomezia) di tutto rispetto e di buona innovazione; sostenere convintamente questa corsa; fare gioco di squadra, spronando anche il governo e le altre istituzioni, per arrivare primi (la valutazione iniziale sarà a settembre e la decisione finale verrà presa a novembre da parte del Consiglio europeo) e ribadire che Roma ha la convinzione e la forza per giocare le grandi partite. L’auto-esclusione la relega invece nel nulla che in questo caso condivide con altre città meno importanti di lei: da Tallin a Riga, da Malaga a Kiev e via così. Nell’elenco per l’Ema (con i suoi 890 dipendenti più l’attività di lobbing è una torta appetitosa) come unica città italiana c’è invece Milano, pur consapevole di non avere i numeri per spuntarla al cospetto di altre capitali, ma non è voluta esserci Roma. 

Il desiderio di partecipare alla lista delle 23 in cui spiccano Parigi, Francoforte, Amsterdam, Barcellona, Bonn, Bruxelles, avrebbe significato la consapevolezza di sapere che cosa si è. Roma non si merita la rinuncia che si è inflitta e l’auto-declassamento che ha decretato per se stessa. Oltretutto, per le agenzie da ospitare, sarebbe stato impossibile da parte di chiunque agitare lo spauracchio degli sprechi, come si è fatto per la candidatura olimpica. Roma ha già tutto per l’arrivo dell’Ema o dell’Eba o di altre euro-istituzioni di quel tipo e di quella rilevanza. E semmai ci fosse bisogno di strutture ulteriori, che male ci sarebbe a farle? Sarebbe un modo per creare posti di lavoro, indotto economico, crescita, aumento del pil. Un traguardo di successi che evidentemente non viene percepito, da chi dovrebbe fare il bene di Roma e rappresentarne gli interessi collettivi, come l’orizzonte obbligato. Il problema è invece nella passività che sembra diventato un tratto identitario di Roma, mentre i competitor europei cercano di farsi avanti in tutti i modi, e rischia di emarginarla, di ghettizzarla, di farla - appunto - scomparire dalla mappa d’Europa e dai radar del futuro. Nella Roma del vuoto progettuale, che è la certificazione del declino, l’approccio è quello minimalista e dell’ordinario. Non si avverte invece traccia dello straordinario che, per una grande metropoli come questa, dovrebbe essere la normalità. 

E pensare che tutto, nel trasferimento Oltre Manica delle due agenzie europee, nasce dalla Brexit. E Roma, che avrebbe dovuto e potuto fiondarsi sulla Grande Occasione, si è viceversa abbandonata alla Romexit. All’uscita dall’Europa che vuole competere e contare. Con una differenza. La Brexit è stata liberamente scelta dagli inglesi. La Romexit non l’hanno scelta i romani. Ma è il frutto di un autolesionismo imposto dall’alto e incurante dei cittadini.
 
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