Partire dal Poetto o dallo storico stadio Amsicora sarebbe facile, persino scontato. Perché del sovrano dell'area di rigore quello è stato il grande regno. Perché è lì che le gocce di sudore del quinto dei quattro mori sono diventate concime, hanno dissetato i tifosi e fatto crescere la quercia dell'orgoglio. Per raccontare il sardissimo Gigi Riva si può invece iniziare da Orgosolo, dal cuore della Barbagia, dove ogni murales rappresenta un simbolo. Di quelli che superano le generazioni e toccano i cuori. Nel paese che ha destinato le sue strade alle battaglie di popolo in forma d'arte Rombo di tuono svetta come un imperatore. La storica maglia del 1970, quella che alla Sardegna ha regalato uno scudetto che vale forse più dell'indipendentismo.
LA PATRIA SCELTA
Nelle strade del quartiere Marina, Gigi Riva era un re che poteva circolare senza la scorta. Seguito, fotografato, ma mai assediato. Una divinità. Quando ancora non c'erano i selfie e dei social non si sentiva la mancanza lui regalava sorrisi e autografi. Anche nei tovaglioli di carta del ristorante "Stella marina di Montecristo" dove ogni sera, domenica esclusa, occupava rigorosamente lo stesso tavolo. Non uno qualsiasi, ma quello sotto la scritta "Cagliari Campione d'Italia", attaccato al busto di Nenè. Si è presentato sempre, puntuale, per 25 anni: lo sapevano i cagliaritani e lo avevano scoperto anche i turisti. E qualcuno lo aveva scritto anche nelle recensioni. Per questo all'ora di pranzo c'era spesso il pellegrinaggio, ma svolto secondo le regole di un tempio importante: niente baccano, coda silenziosa, saluti rispettosi e la solita timida richiesta di un abbraccio. Di una stretta di mano, che Gigi Riva non negava neanche quando erano già arrivati gli spaghetti con i ricci o la zuppetta di cozze. Sul menù non ci perdeva troppo tempo. E Giacomo Deiana, l'oste preferito dal mancino più forte di tutti, sapeva già cosa scrivere nella comanda da far arrivare in cucina: «Due fettine di prosciutto di Villagrande, gli spaghettini alle arselle e le trigliette di scoglio fritte. Acqua leggermente frizzante, raramente mezzo bicchiere di rosso».L'ORGOGLIO E LA FEDELTÀ
Per vedere in campo Gigi Riva, persino il re dei latitanti di Barbagia rischiava le manette. Si camuffava e si mimetizzava tra gli striscioni, Graziano Mesina, e poi si infilava tra gli spalti. E un giorno, dopo il fischio finale, Rombo di tuono se lo trovò in auto. «Mi voleva solo chiedere che non cambiassi squadra, che non tradissi la Sardegna». E così è andata. Anzi, dell'isola il bomber dei bomber è stato simbolo e avvocato difensore. Anche di fronte agli ultras che erano razzisti ancor prima che in serie A sbarcassero i giocatori con la pelle di un colore diverso. «Ci chiamavano pecorai. Noi ovviamente ci arrabbiavamo molto ma trovavamo in queste provocazioni lo stimolo per far meglio, per essere ancor più aggressivi in campo».Rispondeva al telefono a pochi, le interviste le concedeva sempre col contagocce. Ma c'era da aspettarselo, da uno che non solo rifiutò quel miliardo della Juventus, ma anche gli inviti di Maurizio Costanzo e le offerte per essere osannato su ogni tipo di palco. Era più felice dei poster ingialliti che i bar dei paesi di Gallura e Campidano esponevano con orgoglio da cinquant'anni, dei murales che diventavano sempre più grandi, non solo a Orgosolo ma anche nelle strade di San Gavino. E ogni volta che anche la Sardegna veniva travolta da un successo sportivo tutti correvano subito a chiamare Gigi Riva. Ma lui, che mai troppo si infiammava, riportava subito il discorso alla realtà. «Purtroppo lo sport non è in grado di cambiare le sorti di una regione povera e in gravissima difficoltà come la nostra, ma può essere un bell'esempio da seguire. Dall'entusiasmo, però, bisognerebbe imparare a rimanere uniti per essere forti. E noi sardi questo non l'abbiamo mai capito. Sarebbe bello che si potesse ripartire da questo momento di entusiasmo».