Renzi riparte dal 40%: «Resto segretario dem»

Martedì 6 Dicembre 2016
Renzi riparte dal 40%: «Resto segretario dem»
(Segue dalla prima pagina)

Ebbene, dopo ore trascorse tra «rabbia, delusione, amarezza, tristezza», Matteo Renzi decide di partire. Si aggrappa a quelle frasi scandite subito dopo la Grande Sconfitta, rivolgendosi a chi ha sostenuto il Sì: «Arriverà il giorno in cui torneremo a festeggiare una vittoria. Per me è arrivato il tempo di riprendere il cammino».
A spingere Renzi a frenare la sua irruenza sono stati gli amici di sempre. I vari Luca Lotti e Graziano Delrio, Francesco Bonifazi e Matteo Richetti. Tra colloqui diretti ed sms, il Giglio Magico per prima cosa ha smontato l'idea di abbandonare il Pd o di dimettersi da segretario. Perché l'ossatura e l'intelaiatura del partito serve, eccome, in vista delle elezioni. Perché come dimostra il referendum, è essenziale lo zoccolo duro rappresentato da Emilia Romagna e Toscana, dove ha vinto il Sì. Ma anche da Marche, Umbria, Piemonte e Lombardia, dove i sostenitori della riforma hanno strappato percentuali decisamente più alte rispetto al resto del Paese. «E se lasci il partito, quelle Regioni le regali alla Ditta che, a ben guardare secondo gli analisti, vale più o meno l'8% dei nostri elettori...».
Dunque, come dice Lotti, «ripartiamo dal 40% di ieri». Quota che tradotta significa 13.432 voti: oltre due milioni di consensi in più rispetto al massimo storico fatto registrare alle europee del 2014, quando Renzi incassò il 40,8%. E se D'Alema sostiene che «questo ragionamento è una follia, i voti del referendum non sono voti suoi», non la pensa allo stesso modo il premier dimissionario.
Ritrovata un po' di baldanza, Renzi è andato ad analizzare i flussi, per scoprire che il Sì è stato scelto soprattutto dalla classe media e alta o con un buon grado di istruzione: imprenditori e artigiani, insegnanti e dirigenti. Si sarebbe insomma coagulato quel corpo sociale in grado di dare sostanza al fantomatico Partito della Nazione: pragmatico, progressista, riformista ma anche moderato. Sicuramente de-ideologizzato. E Renzi intende andare alle elezioni «il prima possibile» forte proprio del sostegno di questo blocco sociale.
Per prima cosa, però, il segretario vuole mettere «le cose a posto nel partito». Così nella Direzione convocata per domani pomeriggio, Renzi potrebbe annunciare il congresso a metà febbraio. Con due obiettivi: il primo: ricevere con le successive primarie (aperte) l'investitura a candidarsi alla elezioni per il ruolo di premier; il secondo: regolare una volta per tutti i conti con Bersani & soci. Questa road map incontra però alcuni ostacoli. Renzi dovrebbe prima rilanciare l'intesa con gli alleati Dario Franceschini, Maurizio Martina e i giovani Turchi di Matteo Orfini. In una fase di massima debolezza non è il massimo. E dovrà capire se lo svolgimento del congresso non ritardi troppo l'appuntamento con le urne: «Per organizzare e celebrare le assise», dice un renziano del Giglio Magico, «ci vogliono non meno di tre mesi e così si rischia di andare al voto a maggio, se non a giugno. La stella polare di Matteo è invece il voto immediato».
Immediato è un parolone. Come ha convenuto durante il doppio colloquio con Sergio Mattarella, in cui ha confermato la decisione di lasciare palazzo Chigi (con la formula delle dimissioni congelate) appena varata in settimana la legge di stabilità, Renzi sa che prima di andare alle urne è necessario cambiare l'Italicum e inventare una legge elettorale per il Senato. L'idea è quella di procedere subito, ancora prima della sentenza della Consulta prevista per gennaio, alla ricerca di un'intesa in Parlamento. Per cancellare il ballottaggio alla Camera: «Vista la situazione rischieremmo di consegnare il Paese a Grillo». E per scrivere «una legge coerente per il Senato»: «Ma se l'intesa si rivelasse impossibile, o se scoprissimo che la legge elettorale diventasse un pretesto per tirare a campare», avverte Renzi nei suoi colloqui, «Mattarella permettendo si va a votare subito con quello che c'è. E vediamo cosa succede...». «Tanto più che potrebbe essere la stessa Consulta a cancellare il ballottaggio», aggiunge uno dei suoi fedelissimi, «e in ogni caso Matteo non si farà logorare da mesi e mesi di governo tecnico».
Proprio per evitare il rischio-logoramento e per dimostrare la sua diversità da altri leader («io sono diverso e dopo la sconfitta lascio la poltrona», ha scandito l'altra sera), Renzi rifiuta l'ipotesi dei reincarico. Tanto più «che la sconfitta è stata clamorosa, con percentuali che mai avrei creduto possibili...». Una scelta che però espone Renzi a un problema e gli offre un'opportunità. Il problema: senza l'incarico di premier è senza stipendio. «Ma a questo ci può pensare il partito, un segretario ha pur diritto a qualche soldo», dicono nel quartier generale del Pd al Nazareno. L'opportunità: andare in vacanza per qualche giorno, a ridosso di Natale, insieme alla moglie Agnese e ai figli.
Alberto Gentili
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