Corte Ue: le aziende possono vietare il velo sul posto di lavoro

Mercoledì 15 Marzo 2017
ROMA - Le aziende europee possono vietare ai propri dipendenti di portare il velo islamico, così come possono vietare loro di indossare la kippah o ostentare altri segni, compreso quelli politici e filosofici. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea con una sentenza che non mancherà di sollevare e polemiche poiché va a toccare direttamente il rapporto delle istituzioni con la religione. Il pronunciamento arriva dopo la valutazione di due cause: entrambe donne, musulmane, licenziate dalle rispettive aziende per essersi rifiutate di rinunciare al velo sul luogo di lavoro. Una centralinista, l'altra consulente informatico. La prima in Belgio e l'altra in Francia.
Samira Achbita, assunta quattordici anni fa come centralinista da una multinazionale che si occupa di servizi di sorveglianza e sicurezza a Bruxelles licenziata solo perché portava il velo. Al momento dell'assunzione Samira non lo aveva. Solo in seguito la ragazza sentendo il bisogno di manifestare liberamente la sua fede, prese a portare il velo anche se la policy interna dell'azienda vietava espressamente ai dipendenti di ostentare segni religiosi, politici o filosofici. La Corte non ha ritenuto che ci sia stata alcuna discriminazione diretta verso la dipendente perché la società di vigilanza aveva diffuso regole chiare. «Una regola interna che proibisca di indossare in modo visibile qualsiasi segno non costituisce una diretta discriminazione». Nel secondo caso, invece, alla consulente informatica francese era stato chiesto di togliere il velo in seguito alle lamentele di un cliente. Se ci si appella alla necessità di abbigliamento neutrale - è il ragionamento della Corte - il divieto è legittimo. E' chiaro che la decisione dei magistrati riflette il punto di vista della laicità esistente, per esempio, in Francia, e cioè che la libertà religiosa si mantiene attraverso la cancellazione di tutti i simboli di fede dalla sfera pubblica. Ora spetterà alle più alte istanze di giustizia dei singoli paesi recepire o meno la direttiva europea. Lo scorso maggio una decisione di segno opposto a Milano, dove il tribunale ha condannato una società di ricerca del personale a risarcire una ragazza italiana di origine egiziane: non era stata selezionata come hostess per una fiera di due giorni per via della sua decisione di non togliere il velo islamico. La Corte Ue, per mitigare il dispositivo, ha specificato che l'obbligo di neutralità non deve implicare svantaggi per le persone che professano una religione, né andare a detrimento di convinzioni personali e deve essere giustificato da un «obiettivo legittimo», tramite mezzi «appropriati e necessari». Nei prossimi mesi sarà la Cassazione belga, che ha in esame il caso di Samira, a pronunciarsi, stavolta per capire se la multinazionale avesse potuto offrire alla ragazza un altro posto di lavoro. Nel frattempo in tutta Europa si è scatenata la polemica, da una parte coloro che ritengono come il leghista Salvini sia giusto limitare l'uso del velo islamico poiché «simbolo di oppressione e basta».Mentre Calderoli, vice presidente del Senato, ha sollecitato i tribunali italiani «sempre solerti nel recepire le sentenze comunitarie, a fare propria anche questa pronuncia». Dall'altra parte si stanno muovendo diverse realtà come Amnesty International, assieme alla Rete Europea contro il Razzismo, che ha già sottoposto alla Corte Europea diverse osservazioni giuridiche per difendere il diritto alla libertà religiosa di Samira. A difendere il diritto della ragazza è sceso in campo anche il presidente della conferenza dei rabbini europei, Pinchas Goldschmidt. «Con la decisione di oggi è chiaro che l'Europa sta mandando all'estero un messaggio chiaro: le sue comunità religiose non sono più le benvenute. I leader politici dovrebbero agire presto per assicurare che l'Europa non isoli le minoranze religiose ma rimanga un continente diverso e aperto». (Fr.Gia.)
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