«Il nostro vero campus? È Padova, l'intera città»

Domenica 22 Gennaio 2017
È stato eletto Rettore un anno e mezzo fa, ma Rosario Rizzuto sembra ancora energico ed entusiasta come il primo giorno. «È vero. Sono ottimista di natura. Ma non solo: mi sembra di respirare qui intorno un'aria positiva, carica di energie e di aspettative».
Eppure, i problemi dell'accademia sono tanti, alcuni cronici. Ad esempio il depauperamento della classe docente.
«Vero anche questo: in dieci anni abbiamo perso circa il 20% dei professori e si è registrata la progressiva riduzione dei finanziamenti istituzionali per l'Università e la ricerca. Il mantenimento della qualità della didattica e della competitività è stato un esercizio faticoso».
Da qui l'inevitabilità del numero chiuso?
«Non ci sono solo pochi docenti; il problema vero è che ci sono poche risorse. Così il numero chiuso diventa indispensabile (almeno per le facoltà ad accesso programmato) per garantire una formazione di qualità, che ovviamente deve fare i conti sia con i docenti, sia con la capienza delle aule e dei laboratori, sia con i servizi agli studenti. Ma parlare di programmazione...»
È eccessivo?
«Direi di sì. Programmare è quella funzione virtuosa che vorrebbe uno Stato pianificare le necessità e disporre norme e risorse di conseguenza. Qui non si dispone niente, ma le necessità sono evidenti: servono più laureati e di qualità. Dovrebbero essere il 40% della popolazione, secondo l'Unione Europea, ed invece siamo fermi al 20%».
Colpa appunto del numero chiuso?
«Colpa di chi non pianifica. Mancano le risorse necessarie per allargare la platea di studenti. Questo quando è ormai risaputo che la crisi economica si supera solo con il potenziamento del sapere. In tutti i Paesi avanzati la ricchezza viene correlata con il suo grado di istruzione, e quindi l'Università è vista quale investimento strategico. Obama parla del dollaro speso in formazione che ne ritorna due in benessere. Da noi tante parole, e basta».
A Padova tanti studenti, invece.
«Sessantamila iscritti sono tanti, sì. Ma anche il nostro Ateneo è grande, davvero Universa Universis, grande libertà accademica, grandi discipline, tutti i saperi».
Sembra complicato. Sarebbe meglio invece concentrarsi su poche specialità?
«No davvero, anzi. Le diversità sono ricchezze, soprattutto nello studio. Piuttosto, stiamo lavorando per creare sinergie, incontri, collaborazioni, interdisciplinarietà, insomma un procedere multitasking, perchè ogni problema può e dev'essere affrontato su più fronti. E quando parlo di sinergie mi riferisco al nostro interno, tra dipartimenti e scuole, ma anche all'esterno».
Cioè?
«La collaborazione con gli altri Atenei del territorio, buona e preziosa, tanto più in un periodo di risorse calanti e richieste crescenti. Stiamo spingendo a fondo, tanto che da Univeneto stiamo arrivando a Unitriveneto, la filiera degli atenei di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino. Poi ci sono gli impegni del territorio».
Ossia l'intesa per il Competence centre?
«Certamente, nel quadro del Piano Industria 4.0, in piena collaborazione tra università e mondo dell'impresa, tra ricerca e produzione. Ma la nostra apertura va anche oltre, nella città».
Una città che forse dall'Università si aspetta tanto.
«Io non farei distinzioni. Il nostro campus è la città, un campus diffuso, certo, ma un vero campus. Così come Padova è essa stessa Università, sia per i numeri che ricordavo prima, quei 60 mila studenti, sia per l'osmosi che da sempre ha legato le sorti dell'una e dell'altra».
Parlando di città, non si può non pensare anche al nuovo ospedale.
«Ad ognuno il suo mestiere e le sue responsabilità. Per quanto riguarda l'Università, posso solo ripetere che il nuovo ospedale è indispensabile ed urgente. La sfida sarà trasferirvi la qualità della nostra Scuola medica, un'eccellenza italiana. Per il dove e come, sono altre istituzioni chiamate a procedere».
Oltre alla scarsità di risorse a disposizione, ci sono altri problemi che minacciano il suo entusiasmo?
«Direi uno solo, che però sembra davvero autorigenerante, trasformista, quasi sempre difficilmente superabile. Le burocrazie».
Sono tante?
«C'è quella nostra, interna, alla quale stiamo cercando di porre rimedio, con la smaterializzazione del cartaceo e lo snellimento delle procedure. Poi c'è quella più incrostata, imposta dallo Stato».
Un esempio?
«Nella nostra autonomia universitaria, di fatto limitata dalle norme e dai pochi mezzi, potremmo in teoria arruolare un docente da altro ateneo. In pratica però la procedura prevede infiniti vagli, approvazioni, iter lunghissimi, allo sfinimento. Quando poi si fosse pronti, quel prof avrebbe magari scelto un'altra strada».
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