Ungheria, fallito il quorum ma trionfa il no ai migranti

Lunedì 3 Ottobre 2016 di Il voto contrario all'accoglienza degli stranieri ha raggiunto il 98%, ma alle urne è andato solo il 43,4% degli elettori. Il premier Viktor Orban: «Avanti lo stesso»
Il referendum in Ungheria contro le quote obbligatorie di redistribuzione dei migranti in Europa non ha raggiunto il quorum del 50% necessario per essere valido, fermandosi a circa il 44%. Ma il 98% di coloro che hanno votato, su 8,3 milioni di aventi diritto, ha messo la crocetta sul no: un flop in generale dell'iniziativa, ma un successo politico per Viktor Orban che lo aveva lanciato.
Il premier si aspettava un appoggio popolare alla sua politica del pugno duro sui profughi e di opposizione a Bruxelles sulla regola, già concordata in Europa a settembre 2015, di fissare quote vincolanti per tutti gli stati membri: 160.000 dei migranti approdati in Grecia e Italia da ripartire fra gli Stati Ue. Di questi, 1.294 toccherebbero all'Ungheria (che conta circa 10 milioni di abitanti). Orban sperava ovviamente di raggiungere il 50% ma dato che già negli ultimi giorni era chiaro dai sondaggi che non ce l'avrebbe fatta, aveva cominciato a dire che l'importante non era il quorum ma l'esito del voto, che avrebbe avuto comunque valore vincolante per l'Ungheria.
Il 98% dei no espressi (3,2 milioni) significa che il premier ha potuto pescare voti di sostegno ampiamente al di là del suo partito conservatore (Fidesz), scippandoli agli altri partiti, in parte all'opposizione di sinistra che aveva invitato a boicottare le urne, e in parte al partito di ultra-destra Jobbik nel quale Orban vede una crescente minaccia a destra. Dunque per lui comunque un successo nella conta aritmetica del voto. In questo modo Orban si può presentare come capofila nell'Ue del “no” alla politica di migrazione e come il bastione della civiltà cristiana dell'Europa e dell'Occidente. Questo infatti il tenore delle sue dichiarazioni ieri sera dopo la chiusura dei seggi. «Siamo stati i soli in Europa, purtroppo, a tenere un referendum sui migranti», «siamo orgogliosi di essere stati i primi”, ha detto.
È stata una campagna molto agguerrita che ha pescato a mani basse nel repertorio xenofobo, i profughi erano presentati come concorrenza che ruba lavoro agli ungheresi e messi sullo stesso piano di criminali, terroristi e stupratori. Per Orban il referendum significava anche la «lotta contro la burocrazia di Bruxelles», il segnale che la piccola Ungheria con il suo grande orgoglio magiaro si batteva contro il colosso europeo. In dichiarazioni al seggio, prevedendo l'esito, Orban aveva messo in chiaro: «le conseguenze giuridiche del voto ci saranno in ogni caso», sarà stabilito per legge che solo il Parlamento ungherese può decidere «con chi gli ungheresi vogliono vivere». La sola condizione, aggiungeva, è che i ci devono essere più no di sì. Scenario questo scontato da settimane. In caso contrario, se avessero vinto i sì, Orban aveva anche minacciato che si sarebbe dimesso. Ma si trattava appunto di ipotesi per assurdo.
Fino alla fine, gli organizzatori della campagna hanno incalzato gli elettori con messaggi digitali sollecitando di andare a votare: «ancora solo poche ore alla chiusura dei seggi, è in gioco la sicurezza dell'Ungheria, per favore andate a votare».
I seggi si sono chiusi alle 19 e subito dopo il vice leader del partito governativo Fidesz, Gergely Gulyas, ha annunciato che la percentuale di votanti era sotto il 50% e che il 98% ha votato per il no. Il referendum ruotava attorno a una sola domanda: «Volete che l'Ue imponga anche senza l'approvazione del Parlamento l'insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria?». Già il modo in cui era formulata la domanda, al netto anche di qualsiasi riflesso xenofobo, dava per scontata la risposta. Chi potrebbe in tutta coscienza rispondere sì a un tale quesito, la cui formulazione tendenziosa è evidente. «Con diritto possiamo dire – ha dichiarato Gulyas – che questa è una massiccia vittoria di coloro che respingono le quote di migranti, che credono che solo gli stati nazionali forti possono resistere, che credono alla democrazia e che ha senso rivolgersi ai cittadini».
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