REBUS ALLEANZE

Lunedì 14 Agosto 2017
Tutti, ovviamente, giurando che ci riusciranno da soli. Non solo i grillini e il Pd, che sproneranno i loro elettorati a raggiungere l'irraggiungibile asticella del 40 per cento. Ma anche quelli più piccoli rifiuteranno sdegnosi di allearsi. Dato, però, che l'aritmetica non è un'opinione, il giorno del verdetto si troveranno inevitabilmente alle prese con il rebus delle alleanze. Cioè con l'obbligo di fare quello che, fino al giorno prima, tutti avevano giurato che mai e poi mai avrebbero fatto. A quel punto il boccino passerà nelle mani del Capo dello Stato. E sarà un boccino bollente.
Intendiamoci. Nella travagliata storia della nostra democrazia, ne abbiamo viste di peggiori. E' già successo, ripetutamente, in passato. In tutte queste occasioni, ci ha salvato la fisarmonica. Il meccanismo per cui si allarga nell'immagine di Giuliano Amato il ruolo del Quirinale, che fa da supplente e da garante al vuoto di iniziativa politica delle leadership dei partiti. La gestione di Napolitano resta, in proposito, esemplare, e ha fatto scrivere a molti giuristi di una trasformazione del nostro sistema, rendendolo molto simile al semipresidenzialismo francese. Oggi, quella stagione appare molto lontana. Ma sono passati meno di sei anni, e si stanno creando di nuovo le condizioni per un ritorno del presenzialismo presidenziale.
La prima condizione favorevole è il declino della figura del Premier, e l'assenza di un candidato forte e visibile pronto a balzare su quel podio. Quando Berlusconi era al massimo della propria popolarità, o quando Renzi sembrava destinato a occupare a tempo indeterminato la scena, era fisiologico che il Quirinale facesse uno, o due passi indietro. Il contrario di quello che succede e, probabilmente, succederà quando invece la presidenza del Consiglio non riesce a reggersi in sella. Fu questa la situazione propizia anzi, secondo molti, obbligata perché Giorgio Napolitano prendesse il toro per le corna e guidasse il blitz che portò Mario Monti a Palazzo Chigi, nel pieno della tormenta finanziaria che scuoteva il paese. Però, perché la manovra riuscisse, fu necessario un requisito importantissimo. Per riuscire a governare le reazioni incandescenti delle forze politiche che si sentivano messe alla porta, il Presidente della Repubblica aveva e avrà bisogno di un altissimo tasso di popolarità personale. Una legittimazione popolare che lo potesse fare comportare proprio come un Presidente francese. Un passaggio molto delicato, visto che non abbiamo in Italia una investitura diretta. Ma che, nel caso di Napolitano, funzionò a perfezione. Grazie al capitale di consensi accumulato nei mesi immediatamente precedenti.
Come gli storici ricordano i politici, si sa, hanno la memoria corta appena un anno prima il Quirinale si era mosso con ben altra cautela. Quando Fini, dopo un lungo tiraemolla, ruppe con il Cavaliere e mise insieme un drappello di parlamentari col quale poteva metterlo in minoranza, non ebbe da Napolitano il via libera per uno show-down immediato. E, nel tempo che intercorse prima del voto, Berlusconi ebbe buon gioco a riprendersi una parte dei propri transfughi.
Mattarella secondo molti osservatori ha un carattere molto diverso da quello del suo predecessore. Ma in politica, i temperamenti sono spesso forgiati dagli eventi. E pochi elementi, in verità, nella biografia di Napolitano avrebbero fatto presagire il brusco cambio di passo con cui, nello stato di necessità, prese in mano le redini della politica italiana. Sapremo presto se, con Mattarella, assisteremo a un cambiamento analogo. Il suo understatement, e la pacata severità del suo stile, gli sono già valsi un gradimento diffuso e consolidato. Si avvicina il momento in cui dovrà metterlo a rischio, e a frutto.
Mauro Calise
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