«Gli Ottomila non sono finiti»

Venerdì 26 Maggio 2017
«Gli Ottomila non sono finiti»
Nives Meroi e Romano Benet sono da pochi giorni tornati tra le loro montagne, nella tranquillità di quello che Nives, scherzosamente, chiama Ranch Benet nel Tarvisiano. L'impresa realizzata con suo marito - la salita di tutti i 14 Ottomila del mondo appena completata con l'Annapurna - è ancora fresca nei ricordi e per sempre rimarrà impressa nei libri di storia. Loro, la coppia più alta del mondo, la prima ad aver scalato tutti i 14 Ottomila della Terra. Sempre insieme e sempre in puro stile alpino. Pronti per una nuova impresa.
Quali sono le sensazioni che avete ora, tornati a casa, di quelli ultimi storici passi in vetta?
«Confesso che non ho mai avuto alte meditazioni in cima. Quando sei lì anche gli ultimi secondi sono fondamentali, devi restare concentrato su ciò che fai, anche perché non puoi dire di aver salito una montagna fino a quando non sei di nuovo al sicuro al campo base. Avrete però realizzato l'impresa compiuta. La cosa bella non è aver chiuso i 14 Ottomila, ma averlo fatto in stile alpino, essere arrivati in cima con i nostri compagni (gli spagnoli Alberto Zerain e Jonatan García e i cileni Sebastián Rojas Schmidt e Juan Pablo Mohr, ndr) ed essere tornati tutti giù.
Un'ascesa da alpinismo d'altri tempi, ha commentato Zerain.
«Infatti. Sugli Ottomila c'è sempre meno alpinismo e sempre più turismo d'alta quota, con un ritorno massiccio all'ossigeno, ai climbing sherpa e pareti super-attrezzate. Noi abbiamo invece dovuto unire le nostre forze per raggiungere un obiettivo comune. Sembra un ragionamento utopistico, di quelli a cui non ti puoi più permettere di credere. E invece...»,
Un rapporto, quello con gli altri, nato per caso ma fondamentale.
«Una felice casualità. Avevamo incontrato uno degli spagnoli nel 2009, gli altri non li conoscevamo. Una felice congiuntura astrale ha creato questa unione. Ognuno ha messo a disposizione degli altri le sue capacità ed è stato fondamentale, perché siamo consapevoli del fatto che noi senza di loro non ce l'avremmo mai fatta e così anche loro senza di noi».
Un'unione, anche di filosofia, fondamentale per conquistare l'Annapurna.
«Sì, in un mondo individuale dove impera la logica a posto io, a posto tutti, è stata questa la cosa più bella. Per questo ricorderò l'ascesa come una bellissima pietra preziosa per la collana dei 14 Ottomila. Anche la filosofia dell'ascesa è stata importante. Può accadere di incrociare altri alpinisti, ma non sempre c'è unione di intenti nel modo di salire. È una felice affinità quella che si è creata, in particolare con i due giovani ragazzi cileni, espertissimi di Patagonia ma alla loro prima esperienza su un Ottomila».
Un passaggio di consegne?
«È quello che abbiamo detto loro. Siamo contenti di aver incontrato dei giovani alpinisti con la nostra stessa filosofia. Questo ci dà speranza che ci sia ancora volontà di avvicinarsi all'alpinismo senza scorciatoie, ma per salire un passo dopo l'altro».
I vostri colleghi vi hanno chiamato per complimentarsi con voi dell'impresa?
«Molti sono impegnati, ma qualche chiamata è arrivata. Poi inutile dire che l'essere umano è lo stesso sia a livello del mare sia in cima all'Everest... Salire senza dover rincorrere per forza qualcosa o qualcuno prendendovi il vostro tempo».
Un'altra vostra carta vincente?
«Abbiamo avuto una grande pazienza (ride, ndr), una cosa che la montagna, se vuoi, ti insegna. Ma mai in modo passivo. Non deve diventare rassegnazione: l'attesa del momento è l'attimo migliore per ripartire, per agire. Questo l'abbiamo imparato e ci è stato utile non solo in montagna. Una figura importante è il gemello anonimo, il ragazzo donatore di midollo, senza il quale racconteremmo un'altra storia».
Sicuramente.
«Quando nel 2014, dopo tutto il percorso della malattia di Romano, abbiamo salito il Kangchenjunga, sulla montagna eravamo soli, ma a noi piace dire che eravamo in tre proprio perché se non ci fosse stato questo giovane sconosciuto che ha scelto di donare una possibilità di vita a un altro sconosciuto nulla sarebbe stato possibile».
Che effetto fa sapere che negli ultimi giorni 70 alpinisti hanno raggiunto la vetta dell'Everest e che a breve un centinaio tenteranno il Lhotse?
«È il turismo di alta quota che va di moda ora, esattamente il contrario della nostra idea. L'Everest è la vetrina più alta della Terra ed è il miglior modo per farti vedere, poco importa tu salga con un uso massiccio di ossigeno o di climbing sherpa che ti spingono. Ormai è più importante raggiungere l'obiettivo e il come passa in secondo piano».
Adesso tornerete a scalare gli Ottomila?
«Speriamo. Chi ha raggiunto l'obiettivo appende il chiodo al chiodo, significa che non lo faceva per passione. Con la vera passione, la voglia di sognare nuovi itinerari ti rimane. Sempre».

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