Apple, il “grimaldello” di Bruxelles che accelera l’unione fiscale

Mercoledì 31 Agosto 2016 di Alessandro Cardini
Apple, il “grimaldello” di Bruxelles che accelera l’unione fiscale
BRUXELLES - E quattro. La decisione della Commissione europea di considerare illegali gli accordi fiscali concessi dall’Irlanda alla Apple, che hanno permesso al colosso di Cupertino di pagare in Europa solo 500 euro di imposte per ogni milione di profitto nel 2011 e meno di 50 euro nel 2014, non è la prima e non sarà l’ultima di questo genere. Ed Apple non è il primo grande gruppo americano colpito dall’Antitrust di Bruxelles per pratiche fiscali contrarie alle regole sugli aiuti di Stato. 

Il primo passo è stato fatto nell’ottobre 2015, quando la Commissione aveva giudicato illegali gli accordi fiscali (tax rulings) concessi dall’Olanda a Starbucks, così come erano illegali quelli concessi dal Lussemburgo a Fiat Trade and Finance. Il secondo passo ha colpito, ieri, Apple. Il terzo passo è atteso nei prossimi mesi: viene ritenuto altamente probabile che anche i ruling fiscali concessi dal Lussemburgo ad Amazon e McDonald’s, sui quali Bruxelles indaga da mesi, saranno considerati illegali. Va ricordato anche il caso del Belgio. La commissione ha giudicato illegali altri accordi fiscali con ben 35 multinazionali prevalentemente europee.
D’altra parte, i meccanismi per portare fuori dai confini i profitti tassabili sono simili in tutti i casi.

LA GUERRA DICHIARATA
La Commissione Juncker continua a fare sul serio. La guerra dichiarata allo spostamento ingiustificato dei profitti all’interno dei gruppi multinazionali per ridurre o evitare la tassazione là dove i profitti sono generati non è conclusa ed è destinata da un lato ad approfondire le tensioni politiche fra gli Stati europei, dall’altro a inasprire i rapporti fra Ue e Stati Uniti nel momento in cui il negoziato di libero scambio fra le due aree appare più morto che vivo. Secondo alcuni in Europa, Bruxelles sta mettendo a rischio il principio fondamentale della concorrenza fiscale tra gli Stati membri. È la tesi sostenuta apertamente dall’Irlanda, paese nel quale l’aliquota fiscale legale per le imprese è del 12,5% (come a Cipro). In Italia l’aliquota è al 31,4%, in Germania al 30,2%, in Francia al 38%, in Portogallo al 29%, in Spagna al 28%, nella maggioranza dei paesi dell’Est è inferiore al 20% (dati 2015). Si considera che la guerra ai ruling fiscali sarebbe un grimaldello per scardinare uno dei pilastri della Ue: il fatto che la scelta sul livello di tassazione è di stretta pertinenza nazionale, che non si procede verso un’armonizzazione delle aliquote. Per quanto qualche governo (per esempio a Parigi), preoccupato che una concorrenza fiscale esasperata possa portare alla frantumazione della zona euro, talvolta l’accarezzi, una tale prospettiva non è all’ordine del giorno. Ancor più dopo Brexit: tra le idee accarezzate dai conservatori britannici quella di rafforzare proprio il Regno Unito come territorio fiscale ancora più competitivo di quanto sia oggi una volta uscito dall’Unione europea (l’aliquota legale per la tassazione delle imprese è al 20% e già si parla di ridurla). C’è però l’impegno collettivo a definire una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società, ma il fatto che finora su questo non ci sia accordo mostra quanto il tema sia altamente sensibile e divisivo. 

IL REGIME TRIBUTARIO
Per parare le critiche la commissaria Vestager ha voluto precisare che non viene messo in discussione il regime tributario irlandese e che di per sé i ruling fiscali sono strumenti «perfettamente legali». Il controllo degli aiuti di Stato ha solo lo scopo di «garantire che gli Stati non riservino a determinate società un trattamento fiscale migliore rispetto ad altre: gli utili devono essere ripartiti tra le società di uno stesso gruppo, e tra le diverse articolazioni di una stessa società, in modo corrispondente alla realtà economica». Cosa che nel caso della multinazionale Apple, secondo Bruxelles, non avveniva.

Quanto alle relazioni con gli Usa, basta dire che qualche giorno fa il governo americano aveva indicato come la Commissione non debba «trasformarsi in un’autorità fiscale sovranazionale». Ora la tensione è alle stelle e lo dimostra l’avvertimento del Tesoro americano sugli investimenti esteri in Europa «minacciati».
Nel 2001 la bocciatura della fusione fra General Electric e Honeywell (commissario all’Antitrust allora era Mario Monti) fece molto scalpore. Da anni bruciano molto le dure decisioni antitrust contro Microsoft (con multe per oltre 2 miliardi) e ultimamente le inchieste, tuttora in corso, contro il gruppo Google per abuso di posizione dominante. 

La reazione americana indica che non si apre semplicemente un contenzioso con l’Europa sull’interpretazione delle norme fiscali in rapporto agli aiuti di Stato, si apre un problema più generale di policy: viene messa in causa la liceità di una istituzione Ue di intervenire sui comportamenti di multinazionali non europee nel territorio dell’Unione. 

 
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