Zaia: «Il Veneto dica se vuole la sua banca»

Domenica 23 Ottobre 2016
«Vorrei fosse chiara una cosa: non ho manie di protagonismo, né tantomeno voglio fare il padre nobile della banca del Veneto. Mi sono solo sentito l'obbligo, etico e politico, come governatore, di porre una questione: abbiamo due banche ridotte allo stremo, ma che restano un patrimonio almeno in termini di relazioni e di presenza sul territorio, cosa vogliamo farne? Non faccio appelli né chiedo soldi a nessuno e non aspiro a posti né per me né per altri. Popolare di Vicenza e Veneto Banca o si vendono o si spezzettano o si fondono. Io penso che la strada della fusione vada valutata. Vedo proprio sul Gazzettino che anche la Bce spingerebbe in questa direzione. Bene. Ma il punto vero è un altro: chiedo che il territorio si esprima, che dica se ritiene questa partita una priorità. E questa volta nessuno può chiamarsi fuori. Si abbia il coraggio dire sì o no».
Luca Zaia misura con attenzione le parole. Ma non riesce a mascherare la sua irritazione mista a delusione per quello che ritiene un incomprensibile vuoto di attenzione per il destino delle ex popolari venete. E anche se le sue parole non vogliono apparire come un ultimatum alle forze economiche, ne hanno tutto il significato.
Governatore, con chi ce l'ha?
«Non ce l'ho con nessuno. Ma credo che le forze imprenditoriali, quelle sindacali debbano esprimersi: dire se sono interessati alla partita oppure no. Se il Veneto ritiene che il destino delle due banche non è importante, che dobbiamo girare le spalle e vada come vada, bene, lo dicano e lo faremo. Come governatore ho un'agenda fitta e partite enormi di cui occuparmi: penso a Porto Marghera, ai Pfas, all'Ospedale di Padova. Non è giusto che mi occupi di ciò che il territorio non ritiene importante. Credo però di avere il dovere di porre la questione e di chiedere che, con la maturità e il pragmatismo che questa regione ha sempre mostrato, gli stakeholder, cioè i portatori di interessi, si esprimano, con chiarezza. Anche perché...».
Anche perché?
«Beh, sono stanco di quelli che danno lezioni postume e fanno la storia con il senno di poi. Imprenditori, artigiani, sindacati ci hanno chiesto di aprire un tavolo, bene, l'abbiamo fatto. Ora ciascuno si assuma la propria parte di responsabilità».
Per fare cosa, esattamente?
«Per esempio per confrontarsi con Atlante, il fondo che controlla quasi interamente le due banche. Per dialogare con Cassa Depositi e Prestiti che di Atlante è importante azionista. Insomma per fare sentire il peso del territorio e incidere sulle scelte future. Poi vogliamo dire una cosa?».
Diciamola.
«In Veneto ci sono troppe banche. Non tutte in futuro potranno stare in piedi. Vogliamo parlarne?».
Lei rimane convinto che la fusione tra Vicenza e Montebelluna sia la soluzione migliore? Non sottovaluta le ricadute occupazionali?
«Non sono affezionato a un'idea. Vedo però che Gianni Mion, presidente della Popolare di Vicenza e tra i manager italiani più quotati e rispettati, sostiene con forza l'idea della fusione. Vogliamo tenerne conto? Credo sia importante anche per lui sapere se il territorio c'è o non c'è».
Non tutti la pensano come Mion.
«Guardi, per anni ci siamo sentiti raccontare da tutti, anche da chi oggi continua a calcare il palcoscenico, che la banca del territorio era un valore da difendere. Adesso registro invece molta freddezza intorno all'ipotesi della fusione. Continuo a pensare che, nonostante tutto, un territorio senza una banca di riferimento sia meno forte e credo che la questione vada affrontata. E lo dico nell'interesse di imprese e famiglie. La stagione delle relazioni perniciose, degli amici degli amici va chiusa per sempre. Ma non è la stessa cosa se ad occuparsi del tuo prestito o del tuo fido è un istituto che ha qui il suo quartiere generale piuttosto che a Londra o in Cina».
Resta il tema occupazionale, la fusione imporrerebbe forti tagli.
«Perché, con la vendita ad altri gruppi o lo spezzettamento non ci sarebbero esuberi? Non credo proprio. Io dico: disegniamo gli scenari possibili e vediamo quali sono le ricadute sul piano occupazionale. Poi valutiamo».
Ma c'è il tema degli affidamenti: molte aziende sono esposte con entrambe le banche e, in caso di fusione rischierebbero di dover essere costrette a rientrare.
«Credo che se un'azienda ha titoli per essere affidata non cambierà nulla. Il mercato è cambiato. Bisogna tenerne conto ad ogni livello. Io chiedo solo un no o un sì».
R.P.
© riproduzione riservata

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci