Giuliana Musso: «Morire in guerra nessun eroismo»

Lunedì 30 Gennaio 2017
Giuliana Musso: «Morire in guerra nessun eroismo»
La grande menzogna sta tutta lì, nel mito dell'eroe caduto in guerra. In una guerra scatenata da nazioni che credono di sedare i conflitti a colpi di eserciti spediti sul campo. Non c'è alcun eroismo nel morire in guerra, e non c'è intelligenza nella violenza. «Quale intelligenza ci vuole a risolvere una contesa con un pugno? Quale sistema manda un figlio a morire per vendicare la morte di un altro figlio?». Giuliana Musso punta dritto al cuore, il suo teatro d'indagine, come sempre, non sceglie la via più facile, soprattutto se deve misurarsi con un presente scomodo e di difficile lettura. Attrice, autrice e drammaturga, sempre sensibile e attenta al mondo che la circonda, Musso debutta al Civico di Schio, dal 1 al 3 febbraio, con il nuovo Mio eroe (ore 21, quasi sold out; poi il 16 al Comunale di Mirano, il 17 a Ristori di Verona e il 18 all'Astra di Vicenza), dove dà corpo e voce alle madri dei soldati morti in Afghanistan durante la missione Isaf. Un testo intenso in cui Musso, come nel recente Medea o in La fabbrica dei preti, riflette sulla distruttività umana e su un sistema sociale dominatore, patriarcale.
Perché proprio queste storie? I soldati?
«La missione in Afghanistan è paradigmatica: ci mostra cosa sono le guerre che non possiamo chiamare guerre, e a cosa portano».
Le madri che rappresentano?
«Sono le voci del sentimento, le voci che riconoscono il valore della vita e dell'essere umano come unico. Incarnano anche la svalutazione del sentimento rispetto alla ragione secondo un modello che è culturale».
Cioè?
«Vorrei dimostrare che il sentimento è la forma più alta di intelligenza. Perché è l'intelligenza empatica che ci innalza: alzando il nostro livello di razionalità, ci permette di leggere l'altro e la complessità della realtà. Se ci concentriamo sulla bellezza e sulla sacralità della vita, non si può accettare una cultura che mitizza la violenza e la morte. A parole e pubblicamente il sistema sembra idealizzare il pacifismo, l'intelligenza del sentimento, la maternità e la sacralità della vita, rifiutando la guerra. Ma nei fatti tutto questo viene disprezzato».
Eppure la violenza fa parte della natura umana.
«No, la natura umana non è violenza. La violenza è una costruzione culturale. Per questo racconto i militari vittime della guerra. Il sistema culturale è disposto a sacrificarli, e in quanto sacrificabili, sono eroi».
Il gesto bellico è sempre stato esaltato, dagli antichi greci ai terroristi islamici.
«Nessuna di queste tre madri può essere consolata dall'idea dell'eroismo. Quale sistema manda un figlio a morire per vendicare la morte di un altro figlio? Perché la vita dei soldati è sacrificabile? Per ottenere cosa poi? Dopo le Torri Gemelle è stata dichiarata guerra al terrorismo globale, che in questi anni è cresciuto: se calcolo costi e benefici, è evidente che la strategia della guerra non funziona».
Ma nessuno lo ammette.
«Il mio lavoro vorrebbe superare la riduzione ideologica per cui o sei pro o contro la guerra. Dobbiamo opporci a queste banalizzazioni, ridurre la realtà a slogan è pericoloso. Dentro agli slogan si perdono la ricchezza e la complessità del sentire».
Cosa raccontano le madri?
«L'unicità dei loro figli, le loro scelte, il loro carattere. Sono persone che hanno fatto scelte di vita, anche difficili, con grandi ideali che mi hanno commosso. C'è il tema della patria, della difesa dei propri concittadini, della giustizia internazionale».
Lei parla di intelligenza: parolone di questi tempi.
«Eppure la soluzione alla violenza non è tanto l'amore, quanto l'intelligenza. Siamo noi che possiamo cambiare la storia. Le guerre non sono un destino inevitabile dell'umanità, perché la maggior parte di noi non vuole la guerra che è l'espressione più evidente della stupidità e dell'ignoranza umana».
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