Donne immigrate, da schiave a protagoniste

Lunedì 2 Gennaio 2017
Donne immigrate, da schiave a protagoniste
Prostitute o serve. Siamo abituati a immaginarcele così le immigrate. Straniere e donne, e per questo penalizzate due volte quando cercano lavoro. Eppure cresce il numero di quelle che arrivano in Italia da sole, per salvarsi dalla fame o dalla violenza, spesso lasciandosi alle spalle gli affetti più cari, i figli, per i quali affrontano il calvario: viaggi difficili, iter burocratici kafkiani, lavori umilianti. Per questa loro fragilità e forza le loro storie sono le più toccanti, e se saranno coronate da un happy end o sfoceranno in tragedia dipenderà non dal Fato o dalla Provvidenza ma soltanto dall'ostilità o disponibilità delle persone che incontreranno lungo la strada.
Di esse comincia ad occuparsi anche la letteratura. il caso del libro di Antonio Manzini (il papà del vice-questore Rocco Schiavone) Orfani bianchi (Chiarelettere, 16), che ricostruisce la drammatica vicenda di Mirta, una delle tante giovani badanti moldave costrette ad abbandonare in Patria i figli in un internat, uno degli squallidi istituti dove finiscono gli orfani, ma anche quelli di genitori vivi ma assenti perché emigrati. Un romanzo che aggancia la triste cronaca degli ultimi anni che ha visto in preoccupante aumento il numero dei suicidi tra questi ragazzini, ma che riflette anche sulla condizione umana in generale, consegnandoci la storia, commovente a tratti grottesca, di due infelicità allo specchio: quella di Mirta che si dispera per il suo bambino lontano e solo, e quella di Eleonora, la novantenne incattivita, piena di quattrini ma senza più salute, che Mirta accudisce. Tra le due donne, le due facce della stessa tragica realtà, s'instaurerà un duello a suon di dispetti che sfocerà in una proposta inquietante (di eutanasia) ben retribuita che l'anziana signora farà a Mirta, mettendo a dura prova la sua integrità morale.
E tanti soldi erano stati offerti, per uccidere, anche a Brigitte, infermiera congolese costretta quattro anni fa a fuggire per aver detto no a un colonnello che le chiedeva di fare un'iniezione letale a sette ribelli ricoverati nella sua clinica dopo essere stati feriti durante una manifestazione antigovernativa. Una storia vera, e miracolosamente a lieto fine, che ci racconta Melania G. Mazzucco in Io sono con te (Einaudi, 17,50) ripercorrendo le tappe della doppia odissea di questa donna ex-manager che da un giorno all'altro si è ritrovata prima torturata in carcere al suo Paese e poi a dormire tra i senzatetto mangiando rifiuti alla stazione Termini di Roma, finché qualcuno l'ha indirizzata al centro di accoglienza Astalli: qui tra mille difficoltà burocratiche e con l'aiuto di persone straordinarie, è riuscita a ottenere un lavoro in grado di ridarle dignità e a ritrovare i suoi quattro figli di cui aveva perso ogni traccia.
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