MA IL VERO INCUBO

Venerdì 22 Gennaio 2016
(...) ciò che la speculazione più ardita aveva malamente scomposto e rassicurando sullo stato di salute della banche italiane giudicate, sono parole sue, non meno solide di quelle europee. Ma Draghi non si è limitato a parlare di banche e, nell'avvisare il mercato che a partire da marzo l'azione della Bce non avrà più limitazioni pur di raggiungere l'obiettivo dell'inflazione programmata, ha messo in guardia dai rischi crescenti provenienti da Oriente, non senza dedicare parole preoccupate sull'argomento petrolio. Se il petrolio fosse ancora remunerato in quantità fisiche, oggi anche i paesi aderenti all'Opec lo venderebbero a prezzi non lontani da quelli degli anni Settanta, ossia 40 dollari il barile. Certo, allora la base di formazione dei prezzi erano le quantità fisiche scambiate su mercati molto ristretti e che iniziavano a non essere più dominati dalle grandi compagnie ma, come accade oggi, dagli stati nazionali produttori. Ciò che oggi viene insegnato agli studenti, ossia che prezzo e domanda si condizionano a vicenda e il loro rapporto determina il prezzo, era allora quasi vero: il petrolio aveva dinanzi a sé il mare sconfinato di un consumo che divenne rapidamente mondiale e ciò determinò tutti gli assetti geopolitici del pianeta.
Oggi tutto è cambiato: è la finanza che fa il prezzo e non le quantità fisiche. Va però detto che le quantità fisiche hanno ancora grande importanza in tempi di crisi, ossia quando la finanza si trova a svolgere il proprio ruolo in un contesto caratterizzato da un regime di sovrapproduzione da un lato e di sottoconsumo dall'altro.
In questo scenario il petrolio è tornato a essere quello che è stato nella prima metà del Novecento, ossia un mezzo per sostenere il grande gioco del potere mondiale. Ciò perché l'Arabia Saudita si è messa alla testa della lotta scismatica islamica con lo scopo di indebolire il ruolo degli Stati Uniti nel Grande Medio Oriente ossia nell'area mondiale che va dal Marocco sino all'India e che un tempo era l'Hertland, ossia il punto nevralgico che univa Occidente e Oriente e che a quanti lo dominavano dava il controllo del mondo. Di qui il sangue continuamente versato in quelle terre. Le autorità di Washington si sono illuse che il recente accordo con l'Iran potesse contribuire a ristabilire in quei luoghi un ordine accettabile, accreditandole di un rinnovato ruolo di arbitro. Ma non sarà facile per gli Stati Uniti riuscire nell'intento. Per svariati motivi.
Anzitutto il silenzio tra le due potenze dura dagli anni Cinquanta del Novecento, quando i tentativi di ridare dignità nazionale alla Persia attraverso il controllo delle sue fonti petrolifere sfociarono nel colpo di stato del 1953, organizzato dalla Cia e dai servizi segreti inglesi contro il principe di sangue Mossadeq (l'Operazione Aiax), che solo l'Eni allora guidata da Enrico Mattei coraggiosamente appoggiò. Così facendo, Stati Uniti e Regno Unito si schieravano con le forze waabite e anti-sciite, e si affidavano al nazionalismo arabo e ai partiti appunto pan-arabisti e nasseriani per il controllo di un'area essenziale per il confronto con l'Urss che passava, come oggi accade con la Russia, attraverso il controllo dell'energia.
Molti pensano che la storia del petrolio mondiale sia sempre stata determinata dal prezzo. Questo è vero solo a metà. Il ruolo del prezzo diviene determinante solo in condizioni di stabilità e di equilibrio di potenza. Se queste condizioni cedono, chi possiede i giacimenti e controlla l'offerta può tentare di mettere in scacco qualsivoglia equilibrio di potenza si intenda costruire. Di questa volontà guerrafondaia abbiamo avuto nuovamente prova proprio ieri, quando Khalid al-Falid, presidente del colosso petrolifero Saudi Aramco, tra lo stupore di chi a Davos lo ascoltava ha dichiarato: «Se i prezzi continuano a essere così bassi possiamo resistere per un periodo molto lungo e abbiamo la capacità di far fronte a qualsiasi situazione ci presentino i mercati». Se a ciò aggiungiamo che l'Arabia Saudita è probabilmente il principale fautore del crollo del prezzo del petrolio, abbiamo un'idea più netta di ciò che può accadere nei prossimi mesi sui mercati mondiali delle materie prime.
Del resto, il disegno è chiaro: indebolire il ruolo degli Stati Uniti in tutto l'heartland contando sull'allenza degli Stati del Golfo, del Pakistan e del Bangladesh. In questo contesto, la Cina non sta svolgendo un ruolo di mediazione tra Riyad e Teheran come sembrerebbe apparire seguendo i viaggi diplomatici di Xi Jin Ping. Come gli Stati del Golfo, ha quale scopo primo di indebolire l'America: ciò spiega perché sostiene lo Stato saudita, in grandi difficoltà per un bilancio pubblico fortemente deficitario, acquistando i suoi barili di greggio. Insomma, la guerra del petrolio - all'interno della quale si mescolano più e diversi obiettivi egemonici - non ha ancora toccato l'acme e il prezzo del greggio sembra davvero lontano dall'aver toccato il fondo. Con tutto ciò che seguirà in termini di indebolimento delle economie.
Giulio Sapelli

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