«La voglia di tornare alla normalità»

Venerdì 28 Ottobre 2016 di Camerino si risveglia tra i ruderi e con la terra che continua a ancora tremare.
Ecco piazza Filippo Marchetti, la piazza degli studenti, i platani sotto cui la sera si ritrovano i ragazzi dopo le giornate spese sulle sudate carte in Università, col loro vociare che restituisce di Camerino l'immagine di una città viva, allegra, caotica. Adesso c'è un silenzio mortale, e nemmeno un'anima viva. Solo lo scalpiccio dei vigili del fuoco che fanno i sopralluoghi. Gli studenti sono lontani da questa piazza, lontani dalla zona rossa. Hanno messo le loro cose in valigia e giù, al centro operativo, aspettano che qualcuno li venga a prendere. Torneranno? Forse. Forse sì, forse no.
Non ha fatto morti questa crudele replica del terremoto, ma ha ugualmente lasciato in eredità una paura che non se ne va, che non si stempera neppure davanti alle «rassicurazioni delle autorità». Una paura che cambia la vita, le prospettive, il futuro. La tempesta del sottosuolo non si placa, le scosse si susseguono. L'ultima poco dopo le 19 (magnitudo 4,2) mentre scende il buio. A ogni piccola vibrazione la paura cresce, esplode. Poco importa che non ci siano più pericoli: conta la voglia di fuggire da questo stillicidio di terrore.
Camerino, piccola città universitaria nel cuore dell'appennino marchigiano, è un luogo meraviglioso. Il centro storico appollaiato su un colle, i palazzi rinascimentali, le chiese, i segni di una grandezza passata e di un presente ricco di cultura, di ingegno. Uno di quei posti che lasciano a bocca aperta i turisti, ignari del fatto che vivere qui significa anche fare i conti con l'incombenza della catastrofe. I vecchi parlano del terremoto del '79, le madri ricordano quello del '97. I giovani hanno ancora in testa il frastuono della notte del 24 agosto. E adesso di nuovo, una, dieci, cento scosse.
Al centro operativo, dove la città vecchia lascia il posto alla città nuova, Lidia tiene in braccio il suo cagnolino. Era venuta sei anni fa dalla Sicilia per studiare, laurea in Farmacia. Voleva rimanere a Camerino, cercare un lavoro qui. Una spaventosa «notte tellurica» ha frantumato i suoi progetti. Racconta che alla prima scossa quella delle 19.11 - lei e i suoi compagni di appartamento hanno resistito. Ma due ore dopo non ce l'hanno fatta: «Quella delle 21.18 non finiva più. Ci siamo riparati vicino a un muro portante, abbracciati l'uno all'altro. Convinti che non ci saremmo salvati». Poi nel buio, sotto la pioggia, se ne sono andati. E per strada hanno trovato altre decine, centinaia di studenti in fuga. Corse affannate nei vicoli stretti trascinando il trolley o tenendo in mano le poche cose raccattate in quegli attimi di angoscia, attenti a non inciampare nei sassi caduti in strada. Davanti a un pub di via Lili è rimasto un paio di scarpe nere col tacco, a piedi scalzi si corre più veloci. Il centro di Camerino si è svuotato così, in un baleno. Ora è un deserto di silenzio.
Al Comune sono registrati settemila residenti. A cui vanno sommati almeno tremila studenti fuori sede che abitano nei convitti o condividono piccoli alloggi in centro. Portano freschezza e denaro, voglia di crescere per sé e benessere per chi ha negozi, locali, case da affittare. Sono la ricchezza di questo posto, in tutti i sensi. Non a caso il più preoccupato adesso è il Rettore dell'Ateneo, Flavio Corradini, che risponde con trasporto alle domande di una tv camerunense: «Qui abbiamo ragazzi di 55 Paesi diversi, e molti fra loro sono africani».
Dopo la notte di tregenda il Rettore, per prima cosa, è andato a ispezionare lo stato degli edifici che, fuori dal centro, ospitano aule e laboratori dell'Università. Poi ha fatto stampare delle magliette su cui c'è la data di nascita dell'Ateneo (1336) e l'hastag che si è inventato lì per lì: «IlFuturoNonCrolla». A metà pomeriggio arriva Matteo Renzi, Corradini glene regala una, poi promette: «Io conto di riprendere tutte le lezioni entro una settimana». Renzi gli sorride: «Faremo ogni cosa per darvi una mano. E' una priorità».
Ma agli studenti, per farli tornare, bisogna anche dare un luogo dove stare. Se gli studenti non tornano l'Università muore. Se muore l'Università muore anche il paese. Col rischio che quel gioiello di urbanistica e di storia ora delimitato dai nastri dei vigli del fuoco si riduca a uno spopolato monumento di un passato che non c'è più. Una zona rossa perenne. E non c'è nulla di più triste, di più deprimente, di più sconfortante di una zona rossa. Anche se, come a Camerino, non ci sono le visioni catastrofiche di Amatrice o di Arquata. Le case del centro, anche le più antiche, sono rimaste in piedi. Quelle messe peggio hanno vistose crepe sui muri, ma non c'è distruzione. Sui davanzali vasi di fiori intatti. Vetrine dei negozi intonse. Però sale un nodo alla gola percorrendo quelle strade vuote, senza suoni, espropriate della vita, insozzate da tegole frantumate e dai brandelli di cornicioni caduti, imbruttite dalle auto sconquassate dai sassi di una chiesa lesionata, impolverate, coi portoni spalancati perché nella fuga nessuno si premura di chiudere l'uscio di casa. Le sole voci sono quelle di sei agenti della polizia penitenziaria che recuperano documenti dal vecchio carcere, evacuato nella notte, 40 detenuti caricati sui furgoni e portati a Rebibbia. Il campanile della chiesa di Santa Maria in Via è venuto giù, abbattendosi su una casa dove abitavano cinque ragazzi, scappati appena in tempo. Don Pesciotti non si dà pace: «Dopo la scossa del 24 agosto avevamo detto che la basilica era malmessa. Sono venuti, hanno guardato, preso misure, poi non si sono fatti più sentire. Una vergogna».
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