Stefano Zecchi, docente di Filosofia, scrittore, politico del centrodestra (ma lui

Giovedì 27 Aprile 2017
Stefano Zecchi, docente di Filosofia, scrittore, politico del centrodestra (ma lui preferisce definirsi del centro), già consigliere comunale a Venezia per Forza Italia e poi per la lista Brunetta: come giudica l'applauso choc della platea leghista a Verona?
«Io la cosa la vedo così. Da un punto di vista della rappresentazione estetica è stato un crescendo wagneriano. Trovo che la regia sia stata involontaria a tutto questo, non ci vedo qualcosa di preordinato. Infatti uno si aspettava il silenzio, la commozione e invece quello che aumenta è la tensione verso la incapacità delle istituzioni di proteggere il cittadino. E così quando si arriva al gesto risolutore è proprio una esplosione, lì chi ascolta vede la soluzione dei suoi problemi».
È accettabile?
«Da un punto di vista morale è chiaro che di fronte a un omicidio causato anche da giuste posizioni di autodifesa ci si aspetta il silenzio. E quindi da un punto di vista morale ci può essere una condanna. Ma qui siamo di fronte a una psicologia di massa. Sono convinto che il singolo, ascoltando lo stesso racconto, non si mette ad applaudire. Qui invece c'è un coinvolgimento di massa. Poche volte si ragiona sulla psicologia di massa e come questa cambi le psicologie individuali. L'esempio è quello del branco: molti giovani non farebbero quello che fanno all'interno del gruppo. Il gruppo si esalta e va sempre in una direzione trasgressiva».
Perché si arriva a questo?
«C'è poco da fare: c'è un aumento della criminalità che il più delle volte è imputata a extracomunitari, anche se spesso le vittime non sono necessariamente extracomunitari, ma la psicologia di massa coinvolge tutto in una stessa dimensione. Alla percezione psicologica del pericolo c'è una constatazione oggettiva di situazioni che in fondo dovrebbero essere messe in sicurezza dalle istituzioni. E qui vedo un senso di ribellione nei confronti dello stato di diritto che non fa quello che dovrebbe fare. Faccio un esempio: un ragazzo che va a scuola dovrebbe essere curato e difeso. La sensazione è di non essere tutelati».
Cosa pensa di tutto ciò?
«Penso che tutto ciò sta portando a una visione a mio parere rischiosissima sia a livello individuale che collettivo e cioè l'idea che giustizia significhi vendetta. E quando si arriva a questo le responsabilità delle istituzioni sono fortissime, perché è una deriva che nasce dal sentimento della precarietà. Se la giustizia viene intesa come vendetta è una specie di distruzione dello stato di diritto».
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