Manuela, la donna più veloce d'Italia. «E pensare che inciampavo»

Lunedì 24 Luglio 2017 di Edoardo Pittalis
Manuela Levorato
La donna più veloce d'Italia insegue il quarto figlio. «I miei bambini sono il migliore investimento, per questo voglio anche il quarto. Ho una figlia di 9 anni e i due gemelli che sono nati nei giorni del tornado sulla Riviera del Brenta. Quando sono stanca e li vedo giocare provo una gratificazione profonda, molto diversa dai record».

Manuela Levorato, 40 anni, nata a Dolo, detiene i record italiani dei 100 e 200 metri, da sedici anni nessuna è riuscita a batterli. Due storici bronzi Europei nella velocità, decine di titoli nazionali, anche un oro ai mondiali militari. Veste la divisa dell'Aeronautica, è un aviere prestato al Coni per promuovere e raccontare lo sport nelle scuole venete.

Pensava di fare l'atleta?
«Ho trovato un tema delle elementari, di quelli che chiedono cosa vuoi fare da grande, avevo scritto: Voglio fare la campionessa di corsa. Sono nata in campagna, ad Arino di Dolo, ultima di quattro figli. Ero un po' fuori dal comune, se mi davano una racchetta sapevo come colpire, se mi gettavano in acqua sapevo come nuotare. Però nessuno ci faceva caso. Una volta in prima media una professoressa, davanti a tutta la classe che rideva, mi disse: Tu nella vita non combinerai mai niente. Promisi: Un giorno te la farò vedere. Se non avessi avuto questo carattere, non avrei usato questa umiliazione come leva».

Difficile credere che sia stata così timida: si è gettata dal Campanile a Carnevale, ha posato per un calendario sexy 
«Ero una bambina estremamente introversa, lo sono rimasta anche se so camuffare bene. Mi piaceva molto giocare con le bambole, io mi bastavo. La mia preferita era una Barbie di nome Nancy con uno sguardo un po' severo, sembrava ti scrutasse. Mio padre era operaio del Petrolchimico e lavorava di notte, oggi a 80 anni è uno dei  educi. Sono cresciuta quasi con l'ossessione del lavoro, in pista mi allenavo il doppio e spesso mi facevo male. Ma sono un'atleta che è rimasta integra. Ho fatto sì la Colombina per il Carnevale a Venezia, era un sogno, ma non sono poi così coraggiosa, sono cento metri verticali non orizzontali. È stato terribile, non volevo buttarmi, praticamente mi hanno gettato. E per il calendario un po' sexy l'Aeronautica mi ha tirato le orecchie».

Come ha scoperto di avere talento per correre? 
«Grazie a una compagna delle superiori. Non avevo mai fatto sport, ho messo per la prima volta piede sulla pista di Mira nel settembre 1993 correndo con le scarpe lisce, un anno dopo ero in Nazionale giovanile! Avevo quasi 17 anni, per l'atletica è considerato troppo tardi, ma è stata come una fiammella che si è sviluppata e mi ha indicato la strada. È nata una stellina, scrisse il Gazzettino alla mia prima vittoria. Dopo cinque mesi sono stata catapultata a Cipro con un biglietto d'aereo per i Mondiali giovanili. Mi prendevano in giro perché inciampavo ancora in pista, non sapevo nemmeno mettermi il pettorale, ma sono arrivata terza con la staffetta 4x100 anche col record di categoria».

Poi cosa ha capito?
«Tanto ero insicura nella vita da adolescente, tanto da atleta ero determinata a farcela. Ho fatto diventare la mia grande passione il mio mestiere. Però, forse, ho sbagliato a rifiutare a 18 anni la borsa di studio tutto compreso per meriti sportivi da parte dell'università dell'Ohio, la più grande degli Usa. La vita è cambiata quando ho fatto il primo record, battendo dopo vent'anni quello di Marisa Masullo, proprio davanti alla detentrice: 2286 nei 200 metri e pure controvento. Sono uscita da quella curva come un toro che vedeva rosso, spirava un forte vento come un muro, eppure non sono piccola da spostare. Avevo 21 anni, finii per due volte sulle prime pagine della Gazzetta dello Sport. Una cosa molto pesante da gestire a livello psicologico, però tutto bello».

Il più grande successo?
«Le due medaglie di bronzo agli Europei, erano il sogno che si avverava. Eravamo a Monaco e io sembravo più una tedesca che un'italiana, i tedeschi mi hanno adottata e quando scendevo in pista applaudivano, forse si capiva che ero felice per quello che facevo. Nei 100 sono arrivata terza, battuta di un centesimo, ma per me valeva oro, finalmente avevo fatto qualcosa che mi consacrava. Quando ho vinto il bronzo anche nei 200 allora si sono aperte le fontane, avevo bisogno di sfogarmi. La tensione era esagerata, ero felice e ho pianto e pianto. Ha fatto più notizia questo bronzo tra le lacrime che la vittoria della francese Muriel Hurtis rimasta impassibile».

La più grande delusione?
«Ho avuto una catena di infortuni, mi allenavo in maniera folle, tipo alla Mennea, non avevo grilli per la testa, non mi interessava la discoteca e nell'ambiente mi canzonavano. Invece, ho corso fino ai 37 anni. Sidney doveva essere la mia Olimpiade, appena scesa dall'aereo sono andata su una pista nuova, ero tesa come una corda di violino, mi sono spaccata il piede. Sono entrata in crisi e io che avevo sempre portato i capelli lunghi, anche per sottolineare un tratto femminile, mi sono quasi rapata e mi sono trasferita a Roma. Sono tornata a casa dopo un anno». 

C'era il doping nell'atletica?
«Nei 100 metri ho assistito a una decimazione pazzesca, siamo rimaste in poche, tante sono state trovate positive, troppe sono morte. Non è che io sia stata più furba delle altre, mi allenavo sulla pista di Mira, mi hanno controllato a ogni ora, facevo la pipì quasi a richiesta in qualsiasi parte del mondo. Oggi con la tecnologia controllano le provette di gente che ha fatto pipì dieci anni fa. Sapevamo del doping, ma non che fosse così usato. Al Gala di Roma mi davano ingaggi dei quali non mi lamentavo, la Jones prendeva 100 mila euro e mi dava quattro metri! Cosa c'era in quei metri? Posso dire una cosa? Venezia non si è mai accorta di avere le donne più veloci di tutto il Paese in acqua e in terra. La Pellegrini e me, nate a distanza di pochi chilometri».
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