Il 21enne ucciso dal padre per un prestito
di duecento euro: «Così lo gò copà»

Sabato 27 Luglio 2013 di Monica Andolfatto
Guerrino Minto viene portato via dai carabinieri
VENEZIA - Lo go cop. Le uniche parole che ha detto alla sorella scesa in cucina dal piano superiore dove abita con la madre inferma. Il coltello sporco di sangue sulla tavola ancora preparata per il pranzo appena terminato. Guerrino Minto, 70 anni, agricoltore, non ha più parlato. Ha fissato il cadavere del figlio sul pavimento finché sono arrivati i medici del Suem. Sapeva che non avrebbero potuto fare nulla. Perché Alessandro, 21 anni, era morto. Lo aveva ammazzato lui piantandogli nel petto la lama lunga trenta centimetri del coltello del pane.



A telefonare al 118 è stata la zia, disperata, con la voce rotta dal pianto. Poco prima di mezzogiorno e mezzo. Ieri. Quando in quell’enorme casa colonica al civico 37 di via 1. Maggio, a un centinaio di metri dalla villetta del sindaco Fabio Livieri sulla strada che va a Lova, si è consumata una tragedia assurda, senza senso, inspiegabile.



Ai carabinieri della locale stazione, guidata dal luogotenente Alberto Palumbo, i primi a intervenire informati dal Suem, Guerrino non oppone alcuna forma di resistenza. «Per duecento euro, per duecento euro» ripete in trance mentre viene caricato sull’auto dell’Arma che lo accompagna nella caserma di via Salvo D’Acquisto.



Quarantacinque minuti: tanto dura l’interrogatorio reso davanti al magistrato di turno, Francesca Crupi, dopo il sopralluogo sulla "scena del crimine" con il capitano Enrico Risottino del Nucleo investigativo provinciale di Mestre e del capitano Antonello Sini, comandante della Compagnia di Chioggia.



Un figlio, l’unico, avuto dal matrimonio con una bulgara, sposata quando lui aveva quasi cinquant’anni, e lei nemmeno trenta. Una unione difficile per il divario non solo anagrafico, ma anche culturale e linguistico. Almeno a detta di una vicina che racconta che quando Alessandro era molto piccolo, almeno due volte ha accompagnato al pronto soccorso la giovane moglie straniera, ancora incapace di esprimersi in italiano, col volto tumefatto dalle botte del marito.



Eppure di Guerrino tutti parlano bene. Una persona mite, tranquilla. Persino gli amici di Alessandro che si sono precipitati appena saputo cos’era successo, dicono che non c’erano problemi con il padre con cui era tornato ad abitare, mentre mamma Lucia Lazara se n’era andata trasferendosi a Mestre.



Sì, Alessandro era stato un po’ scavezzacollo, aveva fatto diversi incidenti con la macchina e l’anno scorso era stato anche denunciato per ricettazione. Ma da un po’ di tempo si era tranquillizzato. Era sereno. Straordinario. Forse anche per merito della morosa, Jessica Recaldin, di Lugo, con cui si era messo insieme due anni fa e dalla quale era inseparabile.



E anche per il lavoro, alla Saimi Spettoli di Marghera, come tubista. Da alcuni giorni era in malattia per una brutta congiuntivite per questo ieri non era in fabbrica. Un bel ragazzo Alessandro con la passione per la sua Alfa Romeo Gt e per le barche. Con la gioia di vivere e tutta l’esuberanza della sua età. Che magari creava dei contrasti con l’anziano padre, stretto dal carico familiare della mamma ultranovantenne allettata da accudire insieme alla sorella minata per sempre dal grave lutto - la perdita dei figli in un incidente stradale - che l’ha stravolta.



I soldi. «Dammi almeno duecento euro dei 500 che ti ho prestato. Non ce la faccio ad arrivare a fine mese» dice ad Alessandro. È la miccia della lite che poi degenera nel sangue. Alessandro che lo accusa di avergli svuotato il libretto bancario. Alessandro che spacca un piatto e si scaglia contro il papà.



Poi la lama dritta nel cuore di quel figlio adorato e il suo gli scoppia nel petto dalla sofferenza e dal dolore di quell’atto inconsulto: «L’ho fatto per difendermi. Avevo paura della reazione di Alessandro» si giustifica davanti agli inquirenti. Sono le cinque. Guerrino ammanettato viene portato nella caserma di Chioggia per il fotosegnalamento. Tappa intermedia per il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia: «Go da pagare. Xe giusto che paga» le uniche parole che pronuncia. A guardarlo sembra un povero vecchio, curvo sotto il peso del rimorso e della colpa.
Ultimo aggiornamento: 28 Luglio, 10:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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