Paolo Ongaro: «Faccio ancora fumetti e a 77 anni continuo a divertirmi»

Lunedì 23 Gennaio 2023 di Edoardo Pittalis
Paolo Ongaro: «Faccio ancora fumetti e a 77 anni continuo a divertirmi»

Di mestiere disegna i sogni.

Lo fa da ragazzo, affidandoli alla nuvoletta del fumetto, e continua a farlo oggi, a 77 anni, per adulti e bambini di tutto il mondo. Le sue storie di guerra sono stampate da un grande editore scozzese, Thomson. La Lancio ha deciso di pubblicare in volume la sua storia di Caravaggio e l'autore sta colorando centinaia di tavole. È stato appena scelto per disegnare uno dei personaggi d'avventura più famosi e longevi del fumetto mondiale: Dago, un veneziano del Rinascimento scampato a una congiura, rinnegato, amico e nemico di papi, imperatori, sultani, grandi artisti, principesse e ostesse. La prima nuova avventura lo vede nei Paesi Bassi dove si ammala e incontra un tale che si presenta come il figlio di Cristoforo Colombo.


Da sessant'anni Paolo Ongaro, mestrino, realizza tavole a fumetti. Ha disegnato Tarzan e Diabolik e, per 25 anni, Martin Mystère. Ha pubblicato in molti paesi del mondo, è stato il primo tradotto in Cina dopo Mao. Illustratore versatile specie per lo sport, è stato anche tra gli autori della Storia d'Italia a fumetti di Enzo Biagi. Ha collaborato per anni col Gazzettino sul quale ha illustrato le pagine sportive, ma anche i volumi allegati a incominciare dalla Nostra Storia per il 100 anni del giornale. I sogni non hanno età e nemmeno gli artisti. Così a 77 anni Ongaro vive una stagione ricca di riconoscimenti: la sua storia di Martin Mystère ambientata a Venezia e ispirata all'incendio della Fenice, su soggetto di Toso Fei, è stata votata come il miglior album a fumetti dell'anno; il sindaco di Preganziol, dove abita, lo ha premiato come cittadino illustre. Dice: «Disegnare fumetti vuol dire divertirsi tutto il giorno, avere una grande passione, passare il tempo in creatività. E alla fine della festa ti pagano pure!». Una storia incominciata a Mestre negli Anni Cinquanta, nella famiglia di un meccanico-inventore che aveva l'officina dalle parti della stazione ferroviaria.


Come è iniziata questa avventura nei fumetti?
«Mio padre si chiamava Irmo, un nome strano, faceva il meccanico, ma era anche un inventore e lavorava su brevetti suoi. Ha riempito la Riviera del Brenta con macchine per fare i tacchi da donna al tempo in cui in tutte le case si lavorava per i calzaturifici. Studiavo poco e giocavo molto a calcio, era una piccola promessa della Italo Sport che era una succursale del Venezia. Ero un centravanti, alto per quel tempo, e molto veloce sui cento metri. Disputavamo la Prima Categoria e, da capocannoniere del girone, sono stato inserito in una selezione interregionale per una serie di amichevoli in Austria e Francia. Potevo andare alle giovanili della Juventus, ma la società sparò una richiesta eccessiva e non se ne fece niente. Per ripicca ho smesso di giocare prima dei 17 anni. Amavo già il disegno, così sono andato da mio padre: Non voglio più studiare, voglio fare i fumetti. Per risposta mi comprò una tuta blu per portarmi in officina».


Niente pallone, solo tavole da disegno?
«Un disegnatore che abitava a Mestre mi ha regalato un vecchio pennello e l'inchiostro di china e ho scoperto un mondo fantastico. Intanto, un artista come Miro Missaglia ha incominciato a darmi tavole da inchiostrare e a pagarmi. A 18 anni lavoravo già per conto mio, i primi disegni erano storie western e mi hanno spalancato le porte dell'Intrepido che era il settimanale per ragazzi più diffuso. Ho fatto il salto di qualità, sono entrato in paradiso senza rendermi conto. Dall'Intrepido alla Francia. La Venezia di allora era una piccola capitale del fumetto. A Mestre eravamo io e Giorgio Cavazzano, bravissimo, con lui siamo grandi amici. Al Lido c'erano Pratt, Pavone, Missaglia, Stelio Fenzo e maestri della Disney come Romano Scarpa e Luciano Gatto. Venezia era il centro, Mestre il fulcro giovanile delle idee».


Da chi ha imparato?
«Ho preso a modello Alex Raymond, il Raffaello del fumetto, quello di Flash Gordon e di Rip Kirby. Ho imparato studiando il suo lavoro e copiando a più non posso. Mi piaceva disegnare, ma non pensavo di farne il mio mestiere. Dovevo confrontarmi con mio padre che mi mandava a comprare viti e bulloni perché voleva che capissi come andava la vita. Ma io scappavo a giocare e lui veniva in patronato a inseguirmi. Una volta torna a casa e mi trova a disegnare, guarda quello che avevo fatto e mi dice: Adesso o ce la fai col disegno o torni a scuola o ti metti a lavorare. Mi ha concesso un anno di tempo nel quale dovevo decidere la mia vita».


Il primo guadagno e la prima storia pubblicata?
«A 17 anni mi hanno pagato un lavoro con 13 mila lire e ne ho speso più della metà per comprare un candelabro antico da regalare a mamma per Natale. Ce l'ho ancora. Poi hanno pubblicato la storia western sul Piccolo Missionario, era stato Miraglia ad aprirmi la porta di quel giornale. Mi hanno pagato in contanti 120 mila lire, tutti in banconote da mille lire. Li ho messi nelle tasche dei jeans, quando sono rientrato li ho tolti in blocco in cucina davanti a mamma, volavano in ogni angolo».


L'amicizia con Hugo Pratt e il viaggio in America?
«Ci si incontrava al Lido, si finiva sempre a tavola dallo Scarso. Mi ha voluto portare negli Usa, dove ho conosciuto i grandi maestri del disegno internazionale. Era un volo organizzato da Molinterni, un corso che scriveva storie e ha inventato personaggi famosi; è stato tra i fondatori del Salone internazionale dei Comics di Bordighera. Ho viaggiato con maestri come De la Fuente, Hergè quello di Tin-Tin, il nostro Bonvi. E negli States ho conosciuto mostri sacri come Milton Caniff, Williamson che ha ispirato Guerre Stellari, Everett, Falk quello di Mandrake. Ho un album con tutti i loro disegni. Non parlavo una parola d'inglese, per contattare Williamson ho chiesto aiuto a una giovane guida che ha attraversato l'enorme hall dell'albergo gridando c'è un pazzo italiano che mi spinge perché cerca mister Williamson. Fortunatamente Williamson parlava spagnolo perché aveva vissuto a Bogotà e tra il suo spagnolo e il mio veneziano siamo diventati amici. Sono stato a casa sua, è venuto a Venezia. Mi ha regalato alcune tavole originali di Raymond, praticamente ha dato il via alla mia collezione di originali d'autore. Ho avuto tanti amici tra i grandi del fumetto italiano, il tempo inclemente ha sfoltito i rami: ho lavorato con Pavone, volevo bene a Boscarato dal quale ho ereditato il personaggio di Larry Yuma. Fumava tantissimo, d'inverno lavorava in una stanza che restava sempre chiusa. Ho avuto un buon rapporto con il grande editore Sergio Bonelli, quello di Tex e Zagor, una volta scomparso lui è cambiato tutto il mondo del fumetto in Italia».


E Ongaro disegnatore sportivo?
«Ho cominciato col Gazzettino. Il giornalista Carlo Mocci mi ha presentato a Giorgio Lago allora capo dello sport: erano vicini i mondiali di calcio, mi ha chiesto di disegnare la storia della Nazionale. Con Paolo Rossi che esultava dopo un gol è iniziata una bella e lunga collaborazione. Ho pubblicato anche col Guerin Sportivo diretto da Italo Cucci e si è aperta una strada: libri su Rossi, Maldini, Platini. Poi con Marino Bartoletti la storia del Guerino a fumetti e la storia delle grandi squadre italiane. Cucci, da direttore del Corriere dello Sport, ha pubblicato un fascicolo con la storia della Roma e della Lazio e dei loro scudetti. Un lavoro impegnativo per i tempi ridotti, con mia figlia Francesca che colorava le tavole come una forsennata. In un giorno andarono esaurite le 200 mila copie del fascicolo. A proposito di sogni disegnati. I testi di quel fascicolo su Roma e Lazio erano del sottoscritto. Ero una ruota nella catena di montaggio e quelle 200 mila copie vendute sono state il mio più grande successo editoriale. Non ci si sveglia mai dai sogni se sono disegnati bene».
 

Ultimo aggiornamento: 24 Gennaio, 10:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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