Pagano, pioniere nella ricerca:
«Veneto leader nella biomedicina»

Lunedì 23 Maggio 2016 di Alberto Beggiolini
Pagano, pioniere nella ricerca: «Veneto leader nella biomedicina»
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Si chiama Atrogin-1, è una proteina-spazzino che aiuta a smaltire le sostanze di scarto della cellula. I risultati della ricerca, durata quasi tre anni, aprono le porte agli studi sull’invecchiamento cellulare. Poi c’è un chip che riproduce fegato e cuore umani: di fatto, è stato scoperto come sviluppare tessuti umani miniaturizzati di fegato e cuore, da utilizzare come strumento di screening per testare nuovi farmaci e quindi elaborare nuove terapie. E ancora i "muscoli in provetta", per curare la distrofia muscolare e altre malattie genetiche del muscolo: la trasformazione di cellule della pelle o del sangue di un paziente in cellule staminali, per poi ritrasformare queste cellule in muscolo, aprendo straordinarie possibilità per la cura delle malattie genetiche. Sembra fantascienza. «Ed invece sono solo alcuni dei traguardi più recenti raggiunti dai nostri ricercatori». Lo dice con evidente orgoglio il professore Francesco Pagano, luminare europeo dell’Urologia, e uno dei padri della Fondazione per la Ricerca biomedica avanzata (oggi presieduta dal professor Gilberto Muraro), e presidente del VIMM, l’istituto veneto di medicina molecolare, che della prima è il braccio operativo. 
Fondazione e istituto proprio in questi giorni festeggiano i vent’anni di vita. «O di sopravvivenza - continua Pagano - visto che già da subito nessuno avrebbe scommesso sulla nostra "tenuta"».
Perchè vent’anni fa - ma succede ancora oggi - parlare di ricerca interdisciplinare significava pestare inevitabilmente tanti piedi e mettere in discussione tanti orti.
«Fu così che ricorremmo ad un’iniziativa privata, rendendoci conto che se si fossero aspettate le risorse pubbliche rischiavamo di non partire mai».
Così, facendo leva sulla sensibilità, e sui portafogli, di una quarantina di grandi imprenditori, l’idea - che stava germogliando da almeno dieci anni - prese forma nel 1996.
«Si trattava di unire, sul modello statunitense, la ricerca di base alla clinica: i centri di studio accanto a quelli di cura, per poter sfruttare subito i risultati e indirizzare le terapie. Dallo studio dell’organo bisognava insomma passare a quello della cellula. Ma non volevamo affatto agire "contro" l’accademia, semmai "con"». 
Il fatto è che non ci credeva nessuno, che tanti si sentivano minacciati dalla concorrenza di quella strana fondazione.
«Strana perchè qui si entrava, e si entra anche oggi, non perchè si conosce qualcuno, ma solo sulla base della validità di un progetto di ricerca già approvato, che una volta qui deve comunque superare il vaglio di una commissione ultra esigente, spesso composta da premi Nobel. La prossima visita dei commissari sarà sabato 28: interrogheranno tutti i ricercatori e giudicheranno i loro progetti».
Vent’anni fa il VIMM iniziò con una trentina di ricercatori.
«Oggi qui lavorano 150 persone, suddivise in 14 gruppi, sostanzialmente riguardanti il muscolo, il cuore, la cardiochirurgia, il diabete, la bioingegneria. Si tratta di medici, ingegneri, biologi, chimici, informatici e fisici, età media al di sotto dei quarant’anni. E tutti sottopagati, ovviamente».
Perchè sono passati vent’anni, ma i finanziamenti per Fondazione e VIMM provengono ancora oggi da privati, dal 5x1000 o dagli stessi ricercatori.
«I quali spesso arrivano qui proponendo progetti vincitori di bandi di ricerca europei, ossia con una "dote", dote che deve servire quindi a pagare loro e i costi del loro lavoro. Arrivano pur sapendo che a noi non è nemmeno concesso il rilascio del titolo di "dottorando", tanto per fare un esempio delle barricate che il sistema pubblico s’innalza intorno. Qui però i giovani trovano la disponibilità della strumentazione e l’osmosi con altri ricercatori, quella trasversalità di competenze che fa ancora paura a tanti, ma che davvero è la via migliore per raggiungere traguardi importanti». 
Dunque, vent’anni alle spalle, ma ancora tanta strada davanti.
«Nella speranza che per i giovani tante porte si aprano più facilmente», conclude Pagano. «Io ho una speranza: che il nostro modello diventi... "contagioso"».
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