Padova. Don Dante, dagli studi di cardiologia alla "chiamata" dell'Africa

Ha consacrato la vita ai più poveri del continente: «Ho visto l’orrore guardando un bambino morire»

Mercoledì 8 Febbraio 2023 di Nicoletta Cozza
Don Dante Carraro

PADOVA - Non pretende di essere Mosè, ma di assomigliargli sì, perché ha la percezione che Dio continui a “chiamarlo”. Non è un caso, quindi, che il capitolo 3 del libro dell’Esodo sia particolarmente caro a don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, soprattutto nel passaggio che parla proprio della “chiamata”, sintetizzata nelle parole “ora va, io ti mando”, che riconosce vere anche per se stesso.

E se per il profeta l’invito era di andare dai faraoni per liberare il popolo di Israele dalla schiavitù, quello che lui oggi si sente rivolgere è di appellarsi ai potenti della Terra affinché l’Africa possa ri-trovare la dignità, la libertà ed essere artefice della propria storia.

Don Dante, da dove è partito?
«Nel 1987 sono diventato cardiologo, lavorando la mattina all’Ospedale militare come ufficiale medico e il pomeriggio nella Cardiologia del Policlinico. Però all’ultimo anno della specializzazione sono entrato in seminario».

Come mai?
«Da piccolo facevo il chierichetto, ma durante l’adolescenza è arrivata la crisi, con la messa che mi diceva poco e i preti che mi pareva parlassero di cose insignificanti. Ma a tenermi unito alla fede ci ha pensato la ragazza di cui ero innamorato. Poi nella mia parrocchia è arrivato don Attilio che dall’altare esprimeva concetti che mi sollecitavano e in quel momento sono comparsi i primi punti interrogativi».

Di che tipo?
«Amavo la Cardiologia, stavo bene con la mia fidanzata, però non ero contento, perché queste due passioni non prendevano il cento per cento di me e avevo la sensazione che mi mancasse qualcosa. Uscivo dall’ospedale, andavo nella chiesa di Santa Sofia e guardavo il Crocifisso, chiedendo al Signore di aiutarmi a capire cosa c’era che non andava».

E poi l’ha messo a fuoco.
«Dopo 2 anni e mezzo Dio mi ha detto “voglio tutto da te”. Ho preso paura, perché ho intuito che non avrei fatto né il medico né il marito, ma nel contempo ho capito che mi sarei sentito libero e avrei condotto la vera vita che desideravo. Ho trovato la forza, con la ragazza ci siamo lasciati, sono entrato in seminario e ho provato finalmente la gioia che ancora oggi conduce la mia esistenza».

Com’è andata?
«Nel 1991 sono diventato prete e al vescovo ho detto che mi sarebbe piaciuto andare in Africa, ma lui mi ha mandato per 3 anni a fare il cappellano alla Sacra Famiglia, dove ho stretto profonde amicizie con ragazzi di piazza Firenze. Era un mio modo di fare il missionario. Poi monsignor Mattiazzo mi ha spostato al Cuamm e nel 1995 ho fatto la prima missione in Mozambico con don Luigi. L’anno dopo sono andato in Etiopia, dove mi sono fermato a lungo».

Qual è stato l’impatto?
«Terribile. Per la prima volta ho visto un bambino morire. Aveva 2 anni e lo ha ucciso il tetano: era vigile, mi guardava, pareva sorridere, ma la malattia gli aveva paralizzato i muscoli mascellari. Lì non ci sono né sieri, né vaccini ed è stato un choc. La sera guardando le stelle ho stretto un altro patto con Dio, dicendogli che avrei voluto dedicare la mia esistenza a queste creature. E lui mi ha dato il privilegio di farlo. Una fase che dura da 28 anni, lavoro tanto per queste mamme e questi bimbi da cui sto imparando molto, soprattutto la loro enorme forza di fronte al dolore. La guerra in Ucraina sta massacrando l’Africa. In Sierra Leone, per esempio, abbiamo inaugurato un 118 che ha funzionato fino all’anno scorso, ma con l’aumento del carburante le ambulanze circolano solo 6 giorni al mese. Ed è inaccettabile che una persona muoia perché i soccorsi non arrivano. In Etiopia è salito il prezzo del grano al punto che l’ospedale di Wolisso si è riempito di bimbi malnutriti. E poi siringhe, garze e guanti hanno ora costi proibitivi. Con tenacia attraversiamo le fatiche e ringraziamo per le belle cose che continuano a succedere, come le lauree di 10 ostetriche sudanesi».

Qual è il suo sogno?
«Vorrei che ogni fratello e ogni sorella potesse ritrovare la propria dignità di uomo libero. Sogno, sempre con tanta umiltà, di accostarmi ai tanti uomini di buona volontà che desiderano realizzare questo progetto del Signore. Io sono una piccola creatura che cerca di fare quello che può».

Ne ha parlato con Papa Francesco?
«Quando ci siamo trovati da soli abbiamo condiviso questo sogno che è lo stesso di Gesù, del Vangelo e della nostra fede, la quale è capace di incidere nella storia e di innescare processi di liberazione per la gente e anche per ciascuno di noi. Certo, lui è il pontefice e io un povero prete, ma il 19 novembre al Meeting annuale del Cuamm con una frase lapidaria ha esclamato “l’Africa non va sfruttata”, quasi a voler dire che noi dobbiamo accompagnarla nel processo liberazione. Parole bellissime che ci hanno motivato».

Ha più rivisto la fidanzatina?
«Purtroppo due anni dopo che ci siamo lasciati è mancata in un incidente. Ho provato un dolore profondo, ma so di avere un angelo che da lassù mi aiuta».

Ultimo aggiornamento: 9 Febbraio, 11:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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