L'ultimo saluto a don Antonio
«Boss delle Cerimonie» | Foto

Venerdì 2 Dicembre 2016 di Raffaella R. Ferré
L'ultimo saluto a don Antonio «Boss delle Cerimonie» | Foto
La notizia della sua scomparsa è stata data dalla famiglia con un manifesto-lenzuolo: «ha dato vita al suo castello d'amore - è scritto - e ha scelto di condividerlo con tutto il mondo». Condividere: ecco il verbo.
A pochi metri dalla camera ardente dove ammiratori, personaggi della canzone neomelodica e del cabaret napoletano, parenti e amici si avvicendavano per dargli l'ultimo saluto, ieri si festeggiava un matrimonio, programmato e non rimandabile; contemporaneamente, on-line, sul sito Il Mattino.it, la notizia della morte era stata cliccata da oltre 250mila utenti, mentre sul profilo Facebook del quotidiano l'avevano visualizzata oltre 2 milioni di persone.
 
 


Oggi, quando dalle 14.50 Real Time trasmetterà tutti gli episodi della serie in una maratona apposita - notizia salutata da like, cuoricini e faccine tristi da più di 25mila utenti - saranno molte di più, mentre tante altre parteciperanno al funerale. Ma perché la scomparsa di Don Antonio anzi, Donnantonie, ricalcando la sua stessa parlata - vede tanta partecipazione e cordoglio? Perché assieme a lui, artefice di sfrontatissime magie con le sue camicie di seta a fantasia, il passato da macellaio raccontato come si racconta una storia d'amore, con nostalgia, la gigantografia di Mario Merola, il libro autoprodotto in cui si narra la storia dell'intera famiglia, se ne va, forse, anche un modo barocco di raccontare allargando i confini del visibile ai quartieri popolari, alle periferie, alle province, agli emigranti che tornano in patria giusto il tempo di dire «Sì, lo voglio».

La scelta del menù con le lotte tra famiglie d'origine e organizzatori per avere i frutti di mare crudi o una pasta e fagioli con le cozze servita alle due di notte. O anche: il momento dell'atelier, con la futura sposa che affiora tra paillettes abbacinanti, bustini e trasparenze perché «s''o ppo' permettere». E ancora: l'adorabile ragazzotta che, provvista di parlata spiccia, sogni che danno ordini e bigodini saldamente ancorati al cranio, molla qualunque cosa stia facendo per affacciarsi al balcone e assistere giubilante alla serenata neomelodica del suo promesso sposo. E poi, il giorno della cerimonia. Gli sposi che montano su una carrozza d'epoca o su un gigantesco camion rosso fuoco e arrivano, finalmente, nel luogo in cui tutte le favole trovano domicilio: un castello. Anzi, il Castello: «La Sonrisa», a cui si accede solo dopo aver liberato in volo delle colombe bianche facendo attenzione che la scatola che le contiene sia rivolta nel verso giusto.

Fino ad oggi decidere cosa preferissimo de «Il boss delle Cerimonie» era praticamente impossibile: per ogni puntata di questo docu-reality sul regno del matrimonio napoletano, in onda su Real Time, c'era una discussione da fare sul web. Che fosse Facebook o Twitter ad ospitarla, che la questione si spostasse da un blog ad una pagina a tema, che detrattori e aficionados si fronteggiassero a suon di commenti, link e meme, divisi tra l'offesa al buon gusto e l'apologia del kitsch, tra il «non tutti i napoletani sono così» e il «simme gente che sape campa'», parteciparvi era d'obbligo, non tanto per dire la propria quanto per non perdersi assolutamente nulla, non una singola sfumatura, di quanto la tv stava trasmettendo nello stesso momento. Gli atteggiamenti, le sensibilità anonime eppure conosciutissime di chi magari ha qualche problema con il congiuntivo ma non con il far festa in maniera che anche le televisioni ne parlino, le cofane di capelli alte quanto pan brioches, i tatuaggi pulp, le vene varicose e le pancette sblusate, i bottoni delle camicie che tirano, le mamme/suocere iperagguerrite e fornite di artigli decorati come stucchi settecenteschi, gli scugnizzi con barchetta, le ueddinplanne, le drag queen, i cantanti neomelodici: sin dalla prima puntata, la prassi del venerdì sera era quella di avvisarsi a vicenda, creare un gruppo d'ascolto iperconnesso e attentissimo, cercare su Facebook i festeggianti chiedendosi come avessero potuto permettersi tali concessioni allo sfarzo (e talvolta anche al decoro).

Guardare «Il boss delle cerimonie» era una faccenda molto poco privata ed estremamente social perché aggirava senza troppe sociologie - menomale! - la morale ufficiale. Come? Rendendo manifesto anche ciò che è difficile rappresentare senza farne un giudizio unico su Napoli e sul Sud: le serenate, i fuochi d'artificio, i parenti caciaroni, la religione del «pare brutto», il culto sfrenato delle apparenze e dell'ofanità, la lotta di classe scambiata per un menù in cui è meglio se qualcosa si butta, la Campania senza filtro, finalmente, nei «territori del consentito» e senza il protagonista che ad un certo punto si ravvede.

Ci siamo fatti tutti delle grosse risate, ecco la verità, a sentir Don Antonio parlare del cavallino, l'ormai celebre «pono piccolissimo tutto pomellato» ignoranti noi, stavolta, del fatto che lo stesso aggettivo all'apparenza tanto azzardato fosse stato utilizzato da Tolstòj in «Guerra e Pace». Sopra ogni cosa, vera chiave dell'acqua, c'era lui che sarebbe arrivato a benedire nozze ma anche battesimi, comunioni, finanche compleanni importanti come i diciottesimi, solo al termine della festa. Quell'augurio, sempre lo stesso, pronunciato con cadenza lenta sulle vocali - «Vi auguro di vivere per cento anni e questi cento anni devono essere sempre in buona salute» - ci mancherà.
 
Ultimo aggiornamento: 15:48