Pierfrancesco Favino: «Ogni giorno di set quattro ore di trucco, una tortura che mi piace. L'intelligenza emotiva è il salvavita per il 2024»

L’attore: «Se rimuoviamo il bisogno di insegnare i sentimenti, rischiamo la violenza Ogni giorno di set quattro ore di trucco: si deve servire la storia senza essere di intralcio, ricordo la grande tradizione delle maschere. E poi mi sono sempre pensato comico»

Mercoledì 27 Dicembre 2023 di Alvaro Moretti
Pierfrancesco Favino (foto Ag. Toiati)

Se un uomo perbene pensa all’anno che verrà; se lo fa guardandosi attorno, alle donne che ha accanto per scelta o fortuna; se si guarda indietro e ha i recettori giusti, sa che deve cercare segnali di speranza dove si può e dove non si pensa. Pierfrancesco Favino aka Picchio (per gli amici, che sono diventati milioni in questi anni, perché di followers Favino non ne cerca anche se li trova) oltre le trasformazioni, di cui parleremo, ha un approccio alla vita che lo avvicina molto al titolo dell’ultimo film presentato. Adagio, parla adagio, per esempio. Ma abbiamo le prove che l’occhio è molto vispo e vede cose che non ci sono. Lo fece per Il Messaggero quando durante la quarantena scrisse un racconto sulla sua San Saba svuotata dal lockdown, eppure popolata dai fantasmi belli del grande cinema che girò e gira ancora in quelle strade. E svuotando del sé i suoi giorni sul set, può diventare in un anno un poliziotto terron-milanese come Amore, un comandante veneto come Todaro o uno zombie del sottobosco criminale romano come Cammello. E proiettarsi al 2024 come partner di Angelina Jolie per il biopic di Larrain sulla Callas («non posso dire nulla, neanche sotto tortura» fa lui), o calarsi in un soggetto di Fellini per Salvatores nel partenopeo Napoli New York, o infine proiettarsi nel feuilleton con il Conte di Montecristo. «Quello lì, quello sui manifesti dei film non sono mica io».

Il più visibile degli attori italiani è abile a scomparire e riemergere come Todaro quando ci sono in ballo principi e cose serie. 

E anche in un film poliziesco, noir, con Roma che brucia non per gioco; con personaggi come il suo Cammello, residuati e zombie di una Banda della Magliana ormai in franchising, ebbene Picchio vuole e sa vedere una cosa. 
«Sollima non gira film con una morale: non c’è mai redenzione nel cinema di Stefano. E non ci sono dimensioni salvifiche. Poi però un fiore nell’asfalto della Tangenziale Est di Roma, che per il resto del mondo è quella scena di Fantozzi, tra gli sfasciacarrozze che guardano al Colosseo Quadrato dell’Eur, un fiore spunta».
 

Ha qualcosa a che vedere con il personaggio del giovane ragazzo, Gianmarco Franchini, che scatena l’azione nel film.
«Quel ragazzo riattiva i poteri di quattro adulti con storie di violenza sopita, di ossessioni pronte ad essere dissotterrate come asce indiane. Ma lui fa una cosa che non gli hanno insegnato i grandi: ha un’intelligenza emotiva sua, se ne parla tanto in queste settimane, un fiore che spunta selvaggio e lo salva. Quel fuoco può accendere gli altri».
 

Beh, Sollima la speranza forse non la cercava, ma alla fine la trova. Chiaro che mi vengano in mente tante cose che abbiamo detto, anche lei, sui grandi fatti di cronaca che hanno riguardato proprio dei giovani che questa “intelligenza emotiva” dovrebbero vedersela insegnata a scuola.
«La scintilla di quel personaggio di un film di genere accende un fuoco, diverso da quello che nella metafora incendia Roma. Accende barlumi in uomini senza domani. Certo poi mi spaventa ascoltare qualcuno che in Parlamento nega l’utilità dell’educazione sessuale nelle scuole: l’alternativa, anzi il competitor è Pornhub. Educare le emozioni è un’emergenza. Se rimuoviamo questo bisogno, se non cogliamo ed esaltiamo l’insorgere dell’intelligenza emotiva rischiamo la violenza: verbale, digitale, fisica».
 

In una intervista s’è messo in discussione: padre di due figlie, compagno di Anna, cresciuto in una famiglia molto matriarcale lei sembra un uomo “perbene”. E per questo si spaventa.
«Io a scuola parlavo più facilmente con le ragazze perché sono cresciuto tra le donne e mi veniva più semplice: eppure anche dietro i nostri gesti protettivi può nascondersi un po’ di cultura del possesso. E allora scatta la domanda se davvero sono come credo di essere, un uomo perbene».
 

Scherzavamo con Lillo, in visita al Messaggero come lei ora: temevamo che fosse Favino che fa Lillo. Anche stavolta, in Adagio, il Cammello è un personaggio in cui Pierfrancesco si riconosce a fatica. 
«Ogni giorno di set quattro ore di trucco: a me piace questa tortura perché quel personaggio è scritto proprio così. Essere loro in questo modo mimetico mi dà grande soddisfazione: non ho nessun orgoglio ferito se in un cartellone 6x9 piazzato in città non si vede Favino ma il mio personaggio. Si deve servire la storia senza essere d’intralcio. Io penso a Volonté e De Niro. Eppoi alla nostra grande tradizione attoriale che è quella delle maschere. Poi c’è qualcosa in questa continua trasformazione che rispetta profondamente un mio istinto primordiale...».
 

Quale?
«Devi avere un po’ di senso del ridicolo di te stesso nell’esporti così e questo è rispettoso di quello che pensavo di me come attore da quando avevo sette anni. Io mi pensavo comico, qualche volta anche al cinema lo sono stato. Ma io ho sempre fatto ridere: perché imito, faccio le voci e i dialetti e mi piace tanto sentire amici e pubblico ridere con me».

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Nella sua visita alla mostra dei 145 anni del Messaggero, tra le molte prime pagine, l’ho vista colpita dalle copertine su Sordi e Gigi Proietti, ma anche da quella su Alfredino Rampi. C’è quel Favino genitore convinto di cui spesso parla?
«È più il ricordo da coetaneo, da figlio direi. Io quella tragedia me la ricordo bene: ero un bambino, quasi coetaneo di Alfredino. Me la ricordo la famiglia riunita davanti alla tv a fare il tifo per un lieto fine. Ricordo che ne parlavamo a scuola il giorno dopo. Ho rivissuto, guardando la pagina, la sensazione di pesantezza, forse mai provata prima. Oggi, forse, non la faremmo più una diretta così, anche se con i social e la stessa tv si riesce ad essere più feroci. Non ho la sensazione che si volesse lucrare attenzione con quella trasmissione: eravamo tutti più ingenui, tutti tifavamo per Alfredino salvo. Anche quelli della tv». 
 

La Roma che brucia nel film di Sollima che metafora è?
«Non è la Roma della Grande Bellezza, quella di Adagio. È una città di dimenticati, che vorrebbero restare a vivere il loro epilogo inevitabile di ex. Io, Servillo e Mastandrea siamo banditi in disuso che però quando sentono il corno, come quello di Narnja, che risuona riscoprono l’adrenalina di una fine possibile lontana dal cliché in cui sono schiacciati dalla fine dei giorni della Banda della Magliana. Ma non è solo Roma quella che vedete nel film, è una specie di Los Angeles apocalittica: noi vogliamo far finta che intorno a noi non ci sia un mondo vicino che brucia. Ma io le sento le fiamme dei conflitti. Avverto un allarme emotivo di cui devo parlare per non sentirmi complice di quel che sarà. Orazio scriveva: è in gioco il tuo interesse quando brucia il muro del tuo vicino. È questa la politica, occuparmi di questo da cittadino».
 

È il nostro numero di fine d’anno e verso il 2024, Favino il suo augurio.
«L’auspicio è che il mondo, gli esseri umani, tornino a pensare che la pace, l’assenza di violenza in qualsiasi forma, siano le uniche condizioni possibili di convivenza tra gli uomini. Io il calore di quella città che brucia lo sento vicino. È il mio muro che brucia, quello delle mie figlie».
 

Politico è anche prendere posizioni scomode, da membro dell’Academy, parlare di uno starsystem che a volte privilegia attori americani per ruoli italiani. Eppure lei è uno degli italiani con maggiori presenze nel cinema delle major.
«Non sono solo: penso a Scamarcio, Alessandro Borghi. Siamo diventati un bel gruppetto. E stiamo producendo film con ambizioni e risorse importanti: penso certo ad Adagio e Comandante, penso al percorso che sta facendo Io, Capitano di Garrone. E a quello che potrà fare Paola Cortellesi con il suo film. E alla qualità espressa dalla Rohrwacher, da Albanese. Non riusciamo ancora, però, ad essere un sistema Italia come vorrei. Questi sono film che riempiono gli occhi. Per riempire le sale però serve anche il pubblico. Il sistema è fatto di film buoni, sale belle e pubblico che s’interessa. I film brutti si facevano anche prima, anzi se ne facevano di più. Ma un film americano brutto magari incassa 6 milioni di euro e uno italiano 40 mila. Un terzo del sistema è fatto dalla gente: io, appelli a venire in sala non ne voglio più fare. Se uno andava 4 volte l’anno al cinema e ora fa il conto di quanto vede le piattaforme, capisce che forse butta i soldi non facendo scelte che gli fanno guadagnare due ore belle in una sala. E non mi si faccia il discorso della durata dei film: Scorsese, Oppenheimer sono film da oltre 3 ore e hanno incassato perché belli. Del film di Cortellesi la gente ha trovato bello condividere opinioni, emozioni e non si è posta il problema del tempo».
 

Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 15:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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