Caro direttore,
non comprendo le finalità vorrei dire bisettimanali, di pubblicare articoli sul Gazzettino sulla vita quotidiana in carcere dell'omicida di Giulia Cecchettin. A chi interessa? Aggiungo che per altri tristi casi non è stata riservato lo stesso trattamento. Sono del parere che più si dà spazio a questi omicidi più si amplifica, purtroppo, l'emulazione.
Damiano Menesello
Caro lettore,
lei è naturalmente libero di avere le sue convinzioni, ma escludo che parlare dell'assassino di Giulia e delle sue condizioni carcerarie possa indurre qualcuno a ripeterne i crimini.
Perché mai un qualsiasi altro essere umano dovrebbe essere indotto a emulare Turetta da un articolo che lo descrive muto, disorientato e chiuso in se stesso dietro le sbarre e con un compagno di cella 60enne? C'è forse qualcosa di perversamente eroico o affascinante in tutto ciò? Non mi pare proprio. Naturalmente a qualcuno, come a lei o come ad altri, può risultare indifferente o addirittura irritante sapere come vive in carcere questo ragazzo poco più che ventenne che ha massacrato la sua ex fidanzata. E comprendo anche che ci sia chi preferirebbe che su una vicenda orribile e lacerante come questa si facesse calare il silenzio. Il nostro punto di vista è diverso. La figura enigmatica di Filippo Turetta, ciò che ha incredibilmente fatto, il delitto orrendo di cui si è macchiato e le terribili modalità con cui ha ucciso Giulia, continuano a sollecitare domande che restano in gran parte senza risposta. E che riguardano, per molti aspetti, anche tutti noi. Ecco perché su questa orrenda storia che ha emotivamente coinvolto milioni di persone non si può e non si deve scrivere la parola fine, lasciando che se ne occupi a questo punto solo la giustizia. Forse sulla morte di Giulia dal punto di vista investigativo non c'è ancora molto da scoprire: certamente c'è però ancora molto da capire. Anche per questo continueremo, per quello che riusciamo, ad occuparci di Filippo Turetta. Anche da recluso.